8 giu 2016

Libertà: Singolare e Femminile


«Sto bene mamma. Ieri abbiamo festeggiato il mio 19esimo compleanno. Sentiamo tutti la mancanza di casa, ma questa guerra non sa cosa sia la mancanza.
Forse non tornerò, madre. In tal caso sappi che ho sognato di rivederti per tanto tempo ma non sono stata fortunata. So che un giorno verrai a Kobane e cercherai la casa che ha visto i miei ultimi giorni…
È nella zona orientale della città, in parte è danneggiata, ha una porta verde punteggiata dei tanti colpi dei cecchini e vedrai tre finestre: su quella a est c’è il mio nome scritto con l’inchiostro rosso.
Lì, madre, ho passato i miei ultimi istanti, osservando la luce del sole filtrare attraverso i fori di proiettile nel vetro...


Narin ». 

Negli ultimi tre mesi, avrò letto e riletto queste righe un'infinità di volte ed in ogni singolo istante le emozioni provate sono state diverse, contraddittorie, spesso intense come un pugno nello stomaco, uno di quelli che tolgono il fiato e lasciano il vuoto, oppure lente ed insidiose come una tristezza dolorosa che avvolge l'anima e difficilmente va via. 
Non ho mai visto il volto di Narin. E probabilmente questo non sarà il suo vero nome. Non so se sia curda, siriana, irachena o europea, ma forse neanche questo importa. 
Narin è solo una delle tante donne combattenti che hanno scelto di difendere la propria libertà. Una di quelle grandi donne che stanno riscrivendo la storia del Terzo Millennio, donne di cui si parla poco e a cui non viene concesso il giusto riconoscimento per la forza ed il coraggio mostrati sul campo di battaglia. Donne che rinnegano la sottomissione incondizionata ai precetti jihadisti e scelgono di imbracciare un kalashnikov. 
Una scelta spesso intesa come forma di sopravvivenza, sorretta dalla volontà sempre più ferrea di annullare definitivamente quel "comune nemico dell'umanità", meglio noto come Isis. Un nemico che considera le donne "disponibili allo stupro" e, nella migliore delle ipotesi, come un mero strumento di riproduzione, obbedienti dunque al più nefasto ordine patriarcale.


A nord-est della Siria e nelle regioni del Kurdistan iracheno, da oltre due anni, si combatte l'ennesima guerra che non fa rumore, che sporadicamente attira l'attenzione internazionale. Eppure in quei territori aridi e devastati, si combatte per la pace e la democrazia, ma, sopra ogni "ragionevole" motivazione che un conflitto può comportare,  si combatte per la rivendicazione dello status di DONNA, pericolosamente minacciato dall'oscurantismo del Califfato.
Narin, Aini (il cui nome significa "primavera" in arabo), Huma, Nashita rappresentano delle moderne guerriere "forti come uomini", paragonabili per alcuni aspetti solo alle leggendarie Amazzoni, acerrime nemiche dell'ordine ricercato della civiltà greca, fortemente maschilista. 




Queste donne coraggiose appartengono al YJA-STAR, l'Unità delle Donne Libere, brigata tutta al femminile, affiliata al ben noto PKK (Partito Curdo dei Lavoratori): un'organizzazione politica nata in Turchia alla fine degli anni '70 in difesa dei diritti e della libertà del popolo curdo e che gli USA e la NATO hanno inserito nella lista dei gruppi terroristici più pericolosi al mondo. A seguito di una tregua stipulata nel 2013, il partito si è poi trasferito in Siria e più precisamente nelle zone semi-autonome curde dell'Iraq. 
E' proprio qui che i battaglioni femminili hanno iniziato a prender forma e a guadagnarsi l'onore sul campo accanto ai peshmerga, ovvero i guerriglieri del Kurdistan iracheno che si battono "fino alla morte" e che da marzo 2015, proprio in virtù della campagna intrapresa contro lo Stato Islamico, godono del benestare dell'America e di buona parte dell'Europa (inclusa l'Italia). Benestare che include armi e supporto logistico.
Sono uomini e donne che creano corridoi  umanitari per porre in salvo intere famiglie, tenute in ostaggio dall'Isis. La loro parola d'ordine in questa lotta difficilissima è INSIEME: entrambi costituiscono l'unica garanzia per una società più civile e maggiormente rispettosa dei diritti e delle libertà altrui. Non si tratta solo di emancipazione, ma è mostrare le proprie radici culturali senza doverle più rinnegare.
E' la storia che si rinnova. E' quell'istante in cui un'ideologia liberale comune a tutti i popoli oppressi inizia a diffondersi, facendo emergere quel bisogno di democrazia, di rivoluzione, che azzera le differenze sociali tra le persone e spezza le catene di una schiavitù (spesso e solo) psicologica.



 E' la storia di come nasce la sorellanza tra donne libere, ovvero di quel legame così forte che le trasforma in un "vero grande tesoro", non più schiave, ma "uguali agli uomini in tutte le sfere della vita pubblica e privata", così come sancisce la legge nella provincia curda di Jazira (Siria nord-orientale), da pochi anni divenuta zona indipendente da Daesh.
Un riconoscimento fondamentale che regola (anche) la parità economica a livello salariale fra uomo e donna e la possibilità di ricorrere al divorzio, condannando ogni forma di violenza, compreso il delitto d'onore.


Eccole le sorelle, le donne che in prima linea si contrappongono senza paura all'inganno più meschino che, senza alcuna vergogna, l'uomo continua a perpetrare da secoli: ovvero quello di strumentalizzare la religione per legittimare una guerra.

Le "leonesse del YJA" sono la riprova del ruolo chiave che ogni donna ricopre nella società. E questo è una bella e ingombrante spina nel fianco per i seguaci dell'Is, tanto da osteggiarlo con ogni mezzo.
Un esempio eloquente è fornito dal manifesto di 30 pagine, scritto dalle donne affiliate al Califfato e messo in rete, precisamente nei forum utilizzati dai miliziani, da gennaio dello scorso anno, in cui vengono enunciate le regole di vita e di comportamento che le donne musulmane devono rispettare per non essere marchiate come "infedeli".
Non nascondo di aver provato una forte repulsione nel leggere come il documento legittimi l'orribile pratica delle spose bambine, o come imponga il divieto assoluto di ricevere istruzione dopo i 15 anni o come definisca "offerte del diavolo" la modernità, l'urbanizzazione e la moda femminile. L'epurazione effettuata sulle immagini commerciali, raffiguranti volti femminili, dimostra quanto sia radicata l'ignoranza mascherata da perbenismo che si cela dietro le loro deliranti farneticazioni. 
Farneticazioni che portano con sé tenebre culturali di ampia portata e che si dissolvono solo attraverso l'accettazione di una vita dedita principalmente alla lotta, al sacrificio, alla sofferenza ed alla resistenza. In altri termini: una vita votata alla Rivoluzione!

Uno dei punti di forza delle combattenti pashmerga, è quello di possedere una lunga tradizione nell'arte della guerra; pare infatti che fossero già operative nell'undicesimo secolo durante il regno del sultano e condottiero Saladino. 
Nel peggiore degli scenari in cui nessun essere umano vorrebbe mai misurarsi, qual è appunto un conflitto armato, esse vengono ritenute delle perfette macchine da guerra, dall'abilità straordinaria, evolutasi progressivamente grazie ad un duro addestramento militare che ha rafforzato la loro determinazione tecnica ma in particolare ha ridimensionato la loro emotività, tale da conquistare il necessario distacco per affrontare qualunque tipo di nemico.

"Sono i migliori cecchini perché sono pazienti e concentrate" - affermano i colleghi maschi.
"Noi non abbiamo più paura. 
Loro sì!" - dichiara Zilan con orgoglio. E sorride e quando lo fa, il suo viso, così come il suo sguardo, s'illumina di una luce particolare, al punto che pare così assurdo che si stia dialogando di guerra e di altri demoni.
Questo non è solo coraggio, ma è potere, quel tipo di autorevole dominio che si è rafforzato mano mano che gli eserciti femminili curdi avanzavano e gli jihadisti invece erano costretti ad arretrare spaventati.
Ebbene sì. Una donna con il dito sul grilletto incute un tale timore presso i soldati dell'Is, al punto da voltare le spalle e scappare via, il più lontano possibile, o se catturati, invocare la morte per mano di un uomo.
Le ragioni di questo bizzarro atteggiamento sono da ricercare in alcuni sermoni predicati da iman salafiti, fedeli alla causa del califfato, secondo cui la famosa, quanto mai agognata, "ricompensa", ossia quella di andare in Paradiso accolti da 72 vergini, sfumerebbe se la morte in battaglia fosse cagionata dal gentil sesso.

Queste sono le 
donne che terrorizzano l'Isis.
Queste le Donne musulmane che rappresentano il vero simbolo di forza in tutto il Medio Oriente.

Ma non sono le uniche a destabilizzare l'arcaico progetto dei seguaci del califfato. 
In Mali, in Algeria, in Niger, in Nigeria ed in Burkina Faso, altre donne musulmane mostrano con orgoglio la loro cultura moderna e progressista, in cui il ruolo femminile e la consequenziale indipendenza, soprattutto sessuale, vengono talmente rispettati, da fare invidia a qualunque civiltà occidentale democraticamente costituita.
Le donne Tuareg rappresentano infatti un'altra nota dolente per gli stolti militanti di Daesh. 


  Non usano il velo per coprirsi, al contrario degli uomini. Prima del matrimonio, possono praticare il sesso liberamente alla stregua dei maschi, purché ogni amante lasci la tenda prima dell'alba  con assoluta discrezione e rispetto. La privacy prima di tutto. 
Dopo il matrimonio, acquistano la titolarità della tenda e degli animali (fondamentali per la sopravvivenza dei Tuareg) e quando si son stufate della vita coniugale, possono divorziare. Non esiste vergogna o sentimenti di fallimento. Ogni divorzio viene celebrato come una festa, perché è importante che la tribù sappia che la donna è libera per essere nuovamente corteggiata.



"Donne musulmane troppo belle e libere". Una minaccia per l'integralismo professato dall'Is.

Uso appositamente il grassetto per ricordare ad una parte del mondo occidentale che "terrorismo" non è sinonimo di Islam.
Sono veramente stanca di queste associazioni qualunquiste perlopiù forzate da una mediocrità intellettuale che travolge, avvolge ed impregna buona parte dell'umana società. 
Di questo passo s'inizierà  sul serio a credere che la Chiesa cattolica non sia responsabile di aver coperto i preti pedofili, che esista "effettivamente" una cura per l'omosessualità o che Giorgia Meloni non usi photoshop per i suoi manifesti elettorali. 

Ogni forma di facile retorica, condita di spot populisti, è alquanto pericolosa, proprio come un atto terroristico.
La libertà di costruirsi un'idea indipendente che esca dagli schemi concettuali imposti dalla società o dai media e/o nutrire dubbi sulle tante verità assolute ed "ufficiali", spaventa le masse e chi le governa. Perché crea una crepa nell'ordine stabilito. E' quella macchia che non va via. E' il caos che prende vita. E' il progresso che si diffonde lentamente. 

E quando il progresso porta la firma delle donne che rifiutano di addomesticarsi ma lottano per la propria libertà, anche l'Isis è fottuto!


  










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