Esistono storie che non tutti han voglia di leggere o di ascoltare ed il disinteresse che ne segue è spesso figlio di un'inerzia intellettuale dilagante. E' un'indolenza strisciante che si nasconde sempre più dietro banalità pretestuose, come la mancanza di tempo o il vivere una vita intensa e sfuggevole.
Esistono storie che a malapena riescono a scalfire il muro dietro cui son state relegate.
Oppure storie che raccontano verità incomplete, talvolta "adattate" per evitare il sorgere di inquietanti turbamenti in coscienze fragili e temporanee, così come appaiono quelle della domenica mattina, destatesi solo per invocare il perdono dei peccati.
Ci sono ancora storie in cui si sceglie di non entrare perché si ragiona secondo il principio del "non sono fatti miei" o perchè affetti dalla sindrome NIMBY ("not in my backyard"), termine coniato intorno agli anni '80 con cui si evidenziava una forma di protesta verso infrastrutture ed insediamenti industriali in zone residenziali, ma che ai nostri giorni va assumendo contorni che superano ben oltre la definizione originale.
Si tratta in buona sostanza di storie dove molti (per fortuna, non tutti!) son bravi a tracciare un confine invisibile e suddividere gli esseri umani in "noi" e "loro".
Esistono altresì dieci, cento, mille e più storie che, senza accorgerci, confiniamo in un angolo della nostra mente, sminuendole con quella tipica nota di rassegnazione, racchiusa in un "eh, è così che va la vita".
Sono le stesse storie a cui faticosamente prestiamo un briciolo di empatia, perché all'improvviso siamo incapaci di osservare certe realtà con occhi diversi.
Tuttavia, vantiamo una virtù: vale a dire, quella di trasformarci in veri e propri inetti affettivi, che abdicano al ruolo di esseri umani a favore di un'involuzione sentimentale, o più precisamente, di una singolare atrofia dell'anima.
Sembriamo piccole spugne, pregne di frustrazione personale e portate ad annullare tutte quelle emozioni da "cor gentile", che meglio fanno comprendere la differenza tra l'essere un'abitudine o scegliere di essere l'eccezione.
Oggi, ciò che ho voglia di raccontarvi non è una sola storia, ma sono tre. E' la narrazione di tre vite quotidiane completamente diverse l'una dall'altra. Tre destini che si sovrappongono e come le rette parallele sembrano non incrociarsi mai.
Ricordate quando a scuola, l'insegnante di matematica poneva la seguente domanda: -"Quante rette passano per un punto?". E la risposta più immediata, a mo' di coro pappagallesco, era: "Infinite!".
Esatto, infinite! Se la semplicità che accompagna i percorsi personali di questi tre sconosciuti è il nostro unico punto, allora in esso s'intrecceranno infinite storie, poiché, infinite sono le verità che potreste scoprire attraverso le loro esperienze.
Alla fine il rischio che si corre è quello di ritrovare se stessi nei racconti di perfetti sconosciuti. Un rischio che vale la pena accettare per scoprire la magia di come ogni singola figura si mescoli l'una all'altra sino ad assumere i contorni di un unico racconto.
Si sa che l'esistenza di ogni individuo è costellata di vittorie e sconfitte. In alcune circostanze, di quest'ultime (ahimè) se ne perde il conto. Ogni cammino è personale, è un viaggio dentro le mille sfaccettature del nostro io inconscio, e come tale lascia cicatrici che non concedono il lusso di dimenticare cosa si è lasciato andare e cosa invece si è scelto di trattenere.
Sono segni impercettibili per occhi estranei, ma non per i nostri, per i quali sono ancora vivi sulla pelle e riportano indietro alle umiliazioni vissute, ai rospi ingoiati, al senso di frustrazione, alle ingiustizie subite. Nondimeno, rappresentano gli istanti in cui ci si rialza dalla polvere, le volte in cui si affronta a muso duro un destino beffardo e crudele o gli attimi in cui ci si rimette in discussione, scacciando la paura del fallimento. Tali situazioni rappresentano altresì la voglia di lottare e sentirsi vivi, perché non c'è soddisfazione maggiore di mostrare il dito medio al fato ed annullare così l'effetto del #NeverJoyEver.
Ed Anna sa cosa significa. D'altronde, lei è una delle innumerevoli donne che hanno decisamente rifiutato di rifugiarsi nel cliché della "principessa da salvare", preferendo indossare l'armatura da Giovanna D'Arco.
La prima storia porta il suo nome, quello di una trentottenne del sud, una "terrona", come lei stessa ama definirsi, fiera delle proprie origini.
Prossima ad uno dei traguardi più temuti dal popolo femminile, ovvero i primi "anta", Anna è una single, laureata...ma precaria, termine più in voga e che fa meno paura rispetto all'affermazione: "disoccupata".
Una condizione purtroppo molto diffusa nel meridione, talmente popolare da essere ormai socialmente accettata. E' come una sorta di passaggio obbligato, una predestinazione naturale o una maledizione per chi ha scelto anni fa di dar una chance ad una terra ingrata ed avara di occasioni, e che, col passare del tempo, ha assistito al lento sgretolarsi delle proprie certezze ed ambizioni per un futuro migliore.
E fragile ed utopistico è divenuto anche il sogno di una stabilità economica o la possibilità di una famiglia .
Aver scelto di non separarsi dagli affetti più cari ed accontentarsi in un certo senso di ciò che il mercato del lavoro locale offrisse, si è rivelato un boomerang che le ha precluso anche la possibilità di lamentarsi o di scoraggiarsi, nonché il diritto di fermarsi un attimo e lasciare che panta rei compisse il suo corso.
No, Anna, non può permetterselo. Non le è consentito immaginare delle sliding doors e fantasticare quali scenari alternativi avrebbe avuto la sua vita se avesse preso quel treno per il nord. NO.
Sarà quel DNA terrone che la rende cocciuta nel proseguire la ricerca e sperare in un avvenire più giusto. Malgrado, quel tic tac biologico diventi ogni giorno più assordante. Malgrado poi l'ennesimo click che segue ogni dannato invio del curriculum.
"Non ricordo più quando è stata l'ultima volta che ho sostenuto un colloquio" - confessa, non nascondendo un sorrisetto amaro:"La mia laurea, il mio master, la mia esperienza, anche in settori diversi, non sono sufficienti, perché quotidianamente mi scontro con il solito ritornello del 'troppo qualificata', 'troppo vecchia', 'troppo donna e quindi prossima ad andare in maternità'. E poco importa se non hai legami sentimentali che frenerebbero trasferimenti oltre i confini regionali. Puoi specificarlo a voce, metterlo per iscritto, tatuartelo in fronte, ma la musica non cambia".
Anna è stata costretta a tornare a vivere dai suoi genitori. E combatte ogni giorno per non far trasparire sul suo volto la frustrazione e l'impotenza di dover dipendere alla sua età da mamma e papà.
"Tutte le volte che incrocio gli occhi di mia madre, mi specchio nella sua profonda preoccupazione. Rivedo i sacrifici, le rinunce, i denti stretti per arrivare a fine mese. Ritrovo la mia gioia e la loro soddisfazione il giorno della laurea. I loro sguardi colmi di aspettative per un futuro brillante".
Abbassa lo sguardo e subito dopo lo rivolge altrove, ma fa fatica nel mascherare quel velo di tristezza che è sceso sui suoi magnifici occhi verdi.
"Riesco dignitosamente a tollerare ogni difficoltà nel cercar lavoro, persino la vergogna o l'umiliazione che mi coglie, specie quando mi accorgo che non solo le porte, ma pure i portoni sono ben sigillati. Riesco a sostenere anche quell'insidioso pregiudizio dietro cui si nascondono le aziende, secondo cui una come me 'costa' ed ha 'pretese'" - afferma con voce decisa -"Sopporto tutto. TUTTO...tranne scorgere la delusione sui volti dei miei genitori. Lì sarebbe la mia fine. Il mio crollo definitivo. La prova concreta del mio più grande fallimento".
La voce le s'incrina. Solleva gli occhi al cielo e sospira. Poi all'improvviso mi regala un sorriso spontaneo.
Anna non rinuncia a sorridere.
Va bene, magari ad un occhio attento, quel modo di incurvare le labbra rivelerebbe in realtà quanto sia arduo tentar di esser sereni in una situazione come la sua.
Ma Anna è forte, ha energia da vendere e spirito di sacrificio, quel tipo di spirito che un ventenne moderno si sogna!
In quella leggera smorfia s'intravede la volontà di chi non molla di fronte alle avversità, di chi non rinuncia alla speranza, di chi ha solo modificato i propri sogni da bambina, di chi desidera trovare finalmente il suo posto nel mondo e magari provare a recuperare i pezzi persi durante la corsa.
Di contro, Samir un lavoro ce l'ha ed anche piuttosto cruciale nell'attuale società: è un mediatore culturale, da non confondere con il mediatore linguistico.
Infatti, a differenza di quest'ultimo, Samir offre consulenza e supporto agli immigrati per favorire al meglio la loro integrazione nel Paese che li ospita; nello stesso tempo è la figura più qualificata nel dialogare con gli enti territoriali, quali Regioni, Province, Comuni, oppure con i servizi sociali e tutte quelle istituzioni che si occupano del problema immigrazione.
Seppur giovane (trentatre anni appena), possiede una qualità più unica che rara, ovvero è uomo di cultura, in grado di passare dal Corano alla Bibbia con naturalezza, lasciando il suo interlocutore interdetto, a tratti disorientato.
Samir ha origini berbere e conserva le peculiarità dell'"uomo libero". E' cittadino del mondo e non si è fatto mancare nulla, nemmeno l'esperienza di dormire avendo per tetto un cielo stellato. Ora, se la volta celeste illuminava una grande città, una spiaggia solitaria o un bosco silenzioso, non ha alcuna rilevanza.
La prima volta che l'ho incontrato mi ha praticamente catapultata in una discussione sulle differenze tra il mondo arabo ed il mondo occidentale. Ammetto di aver provato inizialmente un senso di disagio, perché non mi reputavo all'altezza di affrontare un tema così complesso.
Dopo pochi minuti però la soggezione era svanita: discutere con lui mi donava piacere. Non avvertivo noia o stanchezza. Mi pareva di confrontarmi con un amico di vecchia data, un fratello. Tant'è che ancora oggi, ci rivolgiamo l'uno all'altra con: "Ciao fratello. Come va, sorella?".
Samir è un continuo stimolo per la mente. Ti aiuta a sviluppare una tua visione, un tuo punto di vista differente e scevro da preconcetti sociali. E' ovvio che per realizzare ciò, il primo requisito indispensabile è possedere un cervello funzionante.
Lo si apprezza perché non fa il saccente e dire che potrebbe anche permetterselo! Invece, la sensazione che si prova, entrando in contatto con lui, è quella di una persona affamata di "sapere", sempre pronto ad imparare e non ad istruire.
Esistono storie che a malapena riescono a scalfire il muro dietro cui son state relegate.
Oppure storie che raccontano verità incomplete, talvolta "adattate" per evitare il sorgere di inquietanti turbamenti in coscienze fragili e temporanee, così come appaiono quelle della domenica mattina, destatesi solo per invocare il perdono dei peccati.
Ci sono ancora storie in cui si sceglie di non entrare perché si ragiona secondo il principio del "non sono fatti miei" o perchè affetti dalla sindrome NIMBY ("not in my backyard"), termine coniato intorno agli anni '80 con cui si evidenziava una forma di protesta verso infrastrutture ed insediamenti industriali in zone residenziali, ma che ai nostri giorni va assumendo contorni che superano ben oltre la definizione originale.
Si tratta in buona sostanza di storie dove molti (per fortuna, non tutti!) son bravi a tracciare un confine invisibile e suddividere gli esseri umani in "noi" e "loro".
Esistono altresì dieci, cento, mille e più storie che, senza accorgerci, confiniamo in un angolo della nostra mente, sminuendole con quella tipica nota di rassegnazione, racchiusa in un "eh, è così che va la vita".
Sono le stesse storie a cui faticosamente prestiamo un briciolo di empatia, perché all'improvviso siamo incapaci di osservare certe realtà con occhi diversi.
Tuttavia, vantiamo una virtù: vale a dire, quella di trasformarci in veri e propri inetti affettivi, che abdicano al ruolo di esseri umani a favore di un'involuzione sentimentale, o più precisamente, di una singolare atrofia dell'anima.
Sembriamo piccole spugne, pregne di frustrazione personale e portate ad annullare tutte quelle emozioni da "cor gentile", che meglio fanno comprendere la differenza tra l'essere un'abitudine o scegliere di essere l'eccezione.
Oggi, ciò che ho voglia di raccontarvi non è una sola storia, ma sono tre. E' la narrazione di tre vite quotidiane completamente diverse l'una dall'altra. Tre destini che si sovrappongono e come le rette parallele sembrano non incrociarsi mai.
Ricordate quando a scuola, l'insegnante di matematica poneva la seguente domanda: -"Quante rette passano per un punto?". E la risposta più immediata, a mo' di coro pappagallesco, era: "Infinite!".
Esatto, infinite! Se la semplicità che accompagna i percorsi personali di questi tre sconosciuti è il nostro unico punto, allora in esso s'intrecceranno infinite storie, poiché, infinite sono le verità che potreste scoprire attraverso le loro esperienze.
Alla fine il rischio che si corre è quello di ritrovare se stessi nei racconti di perfetti sconosciuti. Un rischio che vale la pena accettare per scoprire la magia di come ogni singola figura si mescoli l'una all'altra sino ad assumere i contorni di un unico racconto.
Si sa che l'esistenza di ogni individuo è costellata di vittorie e sconfitte. In alcune circostanze, di quest'ultime (ahimè) se ne perde il conto. Ogni cammino è personale, è un viaggio dentro le mille sfaccettature del nostro io inconscio, e come tale lascia cicatrici che non concedono il lusso di dimenticare cosa si è lasciato andare e cosa invece si è scelto di trattenere.
Sono segni impercettibili per occhi estranei, ma non per i nostri, per i quali sono ancora vivi sulla pelle e riportano indietro alle umiliazioni vissute, ai rospi ingoiati, al senso di frustrazione, alle ingiustizie subite. Nondimeno, rappresentano gli istanti in cui ci si rialza dalla polvere, le volte in cui si affronta a muso duro un destino beffardo e crudele o gli attimi in cui ci si rimette in discussione, scacciando la paura del fallimento. Tali situazioni rappresentano altresì la voglia di lottare e sentirsi vivi, perché non c'è soddisfazione maggiore di mostrare il dito medio al fato ed annullare così l'effetto del #NeverJoyEver.
Ed Anna sa cosa significa. D'altronde, lei è una delle innumerevoli donne che hanno decisamente rifiutato di rifugiarsi nel cliché della "principessa da salvare", preferendo indossare l'armatura da Giovanna D'Arco.
La prima storia porta il suo nome, quello di una trentottenne del sud, una "terrona", come lei stessa ama definirsi, fiera delle proprie origini.
Prossima ad uno dei traguardi più temuti dal popolo femminile, ovvero i primi "anta", Anna è una single, laureata...ma precaria, termine più in voga e che fa meno paura rispetto all'affermazione: "disoccupata".
Una condizione purtroppo molto diffusa nel meridione, talmente popolare da essere ormai socialmente accettata. E' come una sorta di passaggio obbligato, una predestinazione naturale o una maledizione per chi ha scelto anni fa di dar una chance ad una terra ingrata ed avara di occasioni, e che, col passare del tempo, ha assistito al lento sgretolarsi delle proprie certezze ed ambizioni per un futuro migliore.
E fragile ed utopistico è divenuto anche il sogno di una stabilità economica o la possibilità di una famiglia .
Aver scelto di non separarsi dagli affetti più cari ed accontentarsi in un certo senso di ciò che il mercato del lavoro locale offrisse, si è rivelato un boomerang che le ha precluso anche la possibilità di lamentarsi o di scoraggiarsi, nonché il diritto di fermarsi un attimo e lasciare che panta rei compisse il suo corso.
No, Anna, non può permetterselo. Non le è consentito immaginare delle sliding doors e fantasticare quali scenari alternativi avrebbe avuto la sua vita se avesse preso quel treno per il nord. NO.
Sarà quel DNA terrone che la rende cocciuta nel proseguire la ricerca e sperare in un avvenire più giusto. Malgrado, quel tic tac biologico diventi ogni giorno più assordante. Malgrado poi l'ennesimo click che segue ogni dannato invio del curriculum.
"Non ricordo più quando è stata l'ultima volta che ho sostenuto un colloquio" - confessa, non nascondendo un sorrisetto amaro:"La mia laurea, il mio master, la mia esperienza, anche in settori diversi, non sono sufficienti, perché quotidianamente mi scontro con il solito ritornello del 'troppo qualificata', 'troppo vecchia', 'troppo donna e quindi prossima ad andare in maternità'. E poco importa se non hai legami sentimentali che frenerebbero trasferimenti oltre i confini regionali. Puoi specificarlo a voce, metterlo per iscritto, tatuartelo in fronte, ma la musica non cambia".
Anna è stata costretta a tornare a vivere dai suoi genitori. E combatte ogni giorno per non far trasparire sul suo volto la frustrazione e l'impotenza di dover dipendere alla sua età da mamma e papà.
"Tutte le volte che incrocio gli occhi di mia madre, mi specchio nella sua profonda preoccupazione. Rivedo i sacrifici, le rinunce, i denti stretti per arrivare a fine mese. Ritrovo la mia gioia e la loro soddisfazione il giorno della laurea. I loro sguardi colmi di aspettative per un futuro brillante".
Abbassa lo sguardo e subito dopo lo rivolge altrove, ma fa fatica nel mascherare quel velo di tristezza che è sceso sui suoi magnifici occhi verdi.
"Riesco dignitosamente a tollerare ogni difficoltà nel cercar lavoro, persino la vergogna o l'umiliazione che mi coglie, specie quando mi accorgo che non solo le porte, ma pure i portoni sono ben sigillati. Riesco a sostenere anche quell'insidioso pregiudizio dietro cui si nascondono le aziende, secondo cui una come me 'costa' ed ha 'pretese'" - afferma con voce decisa -"Sopporto tutto. TUTTO...tranne scorgere la delusione sui volti dei miei genitori. Lì sarebbe la mia fine. Il mio crollo definitivo. La prova concreta del mio più grande fallimento".
La voce le s'incrina. Solleva gli occhi al cielo e sospira. Poi all'improvviso mi regala un sorriso spontaneo.
Anna non rinuncia a sorridere.
Va bene, magari ad un occhio attento, quel modo di incurvare le labbra rivelerebbe in realtà quanto sia arduo tentar di esser sereni in una situazione come la sua.
Ma Anna è forte, ha energia da vendere e spirito di sacrificio, quel tipo di spirito che un ventenne moderno si sogna!
In quella leggera smorfia s'intravede la volontà di chi non molla di fronte alle avversità, di chi non rinuncia alla speranza, di chi ha solo modificato i propri sogni da bambina, di chi desidera trovare finalmente il suo posto nel mondo e magari provare a recuperare i pezzi persi durante la corsa.
Di contro, Samir un lavoro ce l'ha ed anche piuttosto cruciale nell'attuale società: è un mediatore culturale, da non confondere con il mediatore linguistico.
Infatti, a differenza di quest'ultimo, Samir offre consulenza e supporto agli immigrati per favorire al meglio la loro integrazione nel Paese che li ospita; nello stesso tempo è la figura più qualificata nel dialogare con gli enti territoriali, quali Regioni, Province, Comuni, oppure con i servizi sociali e tutte quelle istituzioni che si occupano del problema immigrazione.
Seppur giovane (trentatre anni appena), possiede una qualità più unica che rara, ovvero è uomo di cultura, in grado di passare dal Corano alla Bibbia con naturalezza, lasciando il suo interlocutore interdetto, a tratti disorientato.
Samir ha origini berbere e conserva le peculiarità dell'"uomo libero". E' cittadino del mondo e non si è fatto mancare nulla, nemmeno l'esperienza di dormire avendo per tetto un cielo stellato. Ora, se la volta celeste illuminava una grande città, una spiaggia solitaria o un bosco silenzioso, non ha alcuna rilevanza.
Dopo pochi minuti però la soggezione era svanita: discutere con lui mi donava piacere. Non avvertivo noia o stanchezza. Mi pareva di confrontarmi con un amico di vecchia data, un fratello. Tant'è che ancora oggi, ci rivolgiamo l'uno all'altra con: "Ciao fratello. Come va, sorella?".
Samir è un continuo stimolo per la mente. Ti aiuta a sviluppare una tua visione, un tuo punto di vista differente e scevro da preconcetti sociali. E' ovvio che per realizzare ciò, il primo requisito indispensabile è possedere un cervello funzionante.
Lo si apprezza perché non fa il saccente e dire che potrebbe anche permetterselo! Invece, la sensazione che si prova, entrando in contatto con lui, è quella di una persona affamata di "sapere", sempre pronto ad imparare e non ad istruire.
Samir ha sperimentato mille lavori diversi ed ha imparato a valutarli come un mero strumento per vivere un'esistenza dignitosa, evitando di diventarne schiavi. Lo ascolti e tutto sembra più facile, più comprensibile. Temo che se leggesse la lista della spesa, improvvisamente anch'essa acquisterebbe tratti poetici.
Ma la vita di Samir non è sempre stata così avventurosa o romantica. In un angolo della sua anima ha depositato il proprio bagaglio di dispiaceri, delusioni, amarezze e tanti rimpianti, talvolta legati a scelte istintive e sentimentali.
All'inizio della nostra conoscenza c'era un interrogativo ricorrente che mi frullava in testa: "Che diavolo ci faceva uno come lui qui?!". In un territorio difficile ed effimero, dove spesso le istituzioni sono allo sbando e le persone nutrono più interesse per l'architettura di una piazza rispetto ad una sana e civile lotta in difesa dei diritti degli ultimi, uno come lui, uno con le sue potenzialità, appare proprio come un fiore nel deserto.
Un giorno presi il coraggio a due mani e gli posi la fatidica domanda.
"L'Amore, sorella, ha infiniti modi per manifestarsi e riesce a mostrarti con semplicità disarmante le scelte più difficili da seguire... E questo solo perché sei da troppo tempo alla ricerca di qualcosa che possa avvicinarsi alla tua idea di felicità".
Sorrideva, ma negli occhi neri come la pece traspariva fin troppo chiaramente la sua disillusione.
E' trascorso del tempo da quel giorno e, seppur a volte tenta di mascherarlo con l'ironia, persiste ancora nel suo sguardo quel disincanto tipico di chi ha dovuto accettare a malincuore un compromesso fra i propri ideali e la realtà circostante.
Lo osservo e in mente mi sovvengono i versi di un poema di Kahlil Gibran:
"Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici".
In netto contrasto rispetto a quella di Anna e Samir, appare la storia di Ibrahim. Decidere di raccontarla non è stata una scelta presa a cuor leggero, lo ammetto. Così come non è affatto un caso averla lasciata per ultima.
La sua testimonianza è in realtà un vero pugno nello stomaco. Ibrahim ha quindici anni e si porta dietro quel vuoto silenzioso di chi è abituato ad esser solo al mondo. Ibrahim è né più e né meno che un MSNA, un "minore straniero non accompagnato". Concretamente? Un'ipocrisia avallata legalmente che sostituisce il termine corretto "abbandonato" con uno di facciata come "non accompagnato". In tal modo ogni misura di urgenza, protezione e tutela verso queste persone è di fatto allentata.
Per l'odissea vissuta, questo ragazzino merita la speranza di un futuro migliore. Perché ha lottato per conquistarla.
E' un figlio protetto da Allah perché "vivo". Ha più volte rischiato che la sua vita dipendesse da una manciata di dollari in più nelle tasche di uomini avidi e senza scrupoli. Per alcune persone, poi, Ibrahim ha rappresentato un numero, un essere umano invisibile, "uno dei tanti disperati", un clandestino, un terrorista mascherato da profugo, uno stupratore, una scimmia, una "risorsa boldriniana"...ecc. ecc. ecc.
Perdonate la filastrocca sui luoghi comuni e sugli insulti razziali.
Ad ogni modo, non riesco a considerarlo se non come un bambino a cui è stato chiesto di crescere troppo in fretta. Un sognatore con l'animo da guerriero. Un adolescente con molte cicatrici riconoscibili, sia sul corpo che sull'anima.
Ibrahim è in carne ed ossa tutto ciò che molti commentano sui social senza cognizione di causa. Lui non è una storia lontana. Non è un post letto su Facebook o una foto commovente su Instagram.
Lui lo ritrovi negli occhi del ragazzo che chiede qualche spicciolo al semaforo. Lo vedi in mezzo ad altri emarginati, a bivaccare all'interno di edifici fatiscenti nelle periferie delle grandi città o nelle baraccopoli improvvisate in vecchi casolari rurali.
Lo incontri nei braccianti sfruttati per pochi euro nelle campagne del Sud Italia. Ed infine lo incroci nei ragazzini senza nazionalità che si prostituiscono o spacciano, nascosti negli anfratti delle stazioni metropolitane.
Ibrahim viene dalla Sierra Leone, più esattamente dalla Repubblica della Sierra Leone, un fazzoletto di terra dell'Africa occidentale affacciato sull'Oceano Atlantico.
La sanguinosa guerra civile che, per undici lunghi anni ha notevolmente decimato la popolazione locale, rappresenta una delle pagine più cruenti nella storia dell'umanità. Impossibile fornire una stima precisa circa le migliaia di vittime che furono coinvolte nel conflitto; i profughi invece superarono spaventosamente i due milioni. Numeri che fecero inorridire l'intera comunità internazionale al punto che in ogni parte del globo si invocava un intervento immediato che ponesse fine al genocidio.
La lista degli orrori emersi una volta scoperchiato il pentolone fu l'ennesima vergogna che l'uomo potesse perpetrare ad altri suoi simili.
Allo sgomento dell'epoca si aggiunse una maggiore attenzione ed interessamento verso i territori in mano alle fazioni ribelli. Il motivo? Semplice: i vasti giacimenti auriferi e diamantiferi, attraverso cui gli stessi guerriglieri conclusero numerosi affari illegali allo scopo di rafforzare il proprio armamentario bellico.
Ibrahim non ha vissuto quel periodo raccapricciante. Ma ha conosciuto l'isolamento, il rifiuto, la paura ed il senso di inadeguatezza. Troppo per uno scricciolo così indifeso.
Correva l'anno 2013 quando in Sierra Leone comparve per la prima volta il virus dell'ebola. Da quel preciso istante, il destino di Ibrahim fu segnato: essere immune alla malattia non lo ha protetto però dal trauma di assistere impotente alla morte inesorabile dei propri genitori e delle due sorelline di cinque e tre anni.
L'emergenza dovuta all'epidemia evidenziò infatti altre criticità di tipo sanitario e sociale: ossia, le migliaia di orfani abbandonati a se stessi, perché sopravvissuti e nello stesso tempo rifiutati dai parenti rimasti per timore del contagio.
Come possa un bambino pressoché adolescente, solo, e con pochi oggetti con sé, uscire dal Paese, oltrepassare i confini di più Stati, cavarsela per oltre due anni in condizioni veramente al limite della condizione umana, resta tuttora un mistero.
Gli operatori socio-pedagogici che, sin da subito lo hanno "adottato" occupandosi della sua integrazione presso la casa-famiglia cui è affidato, hanno svolto un lavoro eccezionale, intraprendendo con il ragazzo un lungo percorso di accettazione, pazienza, inclusione e supporto psicologico mai sospeso.
Passo dopo passo, hanno ricostruito il suo estenuante viaggio nel deserto sulle tratte del traffico di esseri umani; la sofferenza, la fame, la sete e la paura di morire in ogni istante per il puro divertimento dei suoi carcerieri, nonché le violenze fisiche e psicologiche commesse e subite al solo scopo di sopravvivere a quella vita di stenti.
E poi ci sono i soprusi, le mille volte in cui ha pregato Dio affinché lo ricongiungesse ai suoi cari. Le infinite lacrime silenziose versate durante la traversata sul Mediterraneo, o anche soprannominato il "Grande Fiume" dagli stessi migranti. Notti fredde ed interminabili, nelle quali il senso di solitudine aumenta sino a divenire una prigione dalle pareti spesse; una cella ancora più cupa di quella di Tripoli in cui ha transitato prima di imbarcarsi.
Incrociare gli occhi di Ibou, come lo chiamano nella casa-famiglia, non è semplice. Ha continuamente lo sguardo basso e se decide di guardarti lo fa per una frazione di secondi. E non comprendi bene se è timidezza o se è un'abitudine difensiva dopo l'inferno che ha attraversato.
Però in quella frazione che ti dedica, scorgi una dolcezza infantile che ti scalda il cuore.
"Qual è la prima cosa che ricordi appena sbarcato?", provo a chiedergli curiosa.
Lo vedo sorridere e trattengo la voglia di abbracciarlo che mi assale: "La doccia. E' stata la più bella della mia vita. L'acqua scendeva e a me sembrava di rinascere".
Che strano...resto un po' delusa. Mi sarei aspettata un elogio al wi-fi ed all'albergo 5 stelle.
Sarcasmo a parte, una riflessione è necessaria.
Le tre storie infatti mi hanno guidata nel focalizzare l'attenzione su un aspetto che tutti noi tendiamo a sottovalutare: la quotidianità, il nostro vivere tranquillo, le nostre piccole lamentele giornaliere.
Commettiamo sovente l'errore di considerare che quello che ci circonda, persone e diritti, sia qualcosa di "eterno", di cui potremo goderne i benefici per un tempo indefinito, mentre la realtà, o più precisamente le testimonianze di Anna, Samir ed Ibou ci scuotono dal nostro torpore, mostrandoci rudemente come un "per sempre" acquisti la stessa fragilità di una bolla di cristallo durante l'uragano Katrina.
Non fingiamo che le loro esperienze non abbiano nulla in comune con le nostre: peccheremo così di una superiorità che nessuno ci ha mai attribuito, se non noi stessi.
Sfoderiamo piuttosto la nostra empatia, caliamoci nello stato d'animo di chi incrocia la nostra vita, sia esso una gioia o un dolore. Cerchiamo un contatto visivo con l'altro, impariamo a guardare in fondo ad uno sguardo senza paura, pregiudizi o apatia.
Restiamo umani, perché conoscere storie diverse può esser la soluzione per affrontare al meglio un mondo difficile e complicato.
"Io che non credo alla guerra, non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera.
Semmai vorrei esser ricordato per i miei sogni".
Vittorio Arrigoni
Ma la vita di Samir non è sempre stata così avventurosa o romantica. In un angolo della sua anima ha depositato il proprio bagaglio di dispiaceri, delusioni, amarezze e tanti rimpianti, talvolta legati a scelte istintive e sentimentali.
All'inizio della nostra conoscenza c'era un interrogativo ricorrente che mi frullava in testa: "Che diavolo ci faceva uno come lui qui?!". In un territorio difficile ed effimero, dove spesso le istituzioni sono allo sbando e le persone nutrono più interesse per l'architettura di una piazza rispetto ad una sana e civile lotta in difesa dei diritti degli ultimi, uno come lui, uno con le sue potenzialità, appare proprio come un fiore nel deserto.
Un giorno presi il coraggio a due mani e gli posi la fatidica domanda.
"L'Amore, sorella, ha infiniti modi per manifestarsi e riesce a mostrarti con semplicità disarmante le scelte più difficili da seguire... E questo solo perché sei da troppo tempo alla ricerca di qualcosa che possa avvicinarsi alla tua idea di felicità".
Sorrideva, ma negli occhi neri come la pece traspariva fin troppo chiaramente la sua disillusione.
E' trascorso del tempo da quel giorno e, seppur a volte tenta di mascherarlo con l'ironia, persiste ancora nel suo sguardo quel disincanto tipico di chi ha dovuto accettare a malincuore un compromesso fra i propri ideali e la realtà circostante.
Lo osservo e in mente mi sovvengono i versi di un poema di Kahlil Gibran:
"Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici".
In netto contrasto rispetto a quella di Anna e Samir, appare la storia di Ibrahim. Decidere di raccontarla non è stata una scelta presa a cuor leggero, lo ammetto. Così come non è affatto un caso averla lasciata per ultima.
La sua testimonianza è in realtà un vero pugno nello stomaco. Ibrahim ha quindici anni e si porta dietro quel vuoto silenzioso di chi è abituato ad esser solo al mondo. Ibrahim è né più e né meno che un MSNA, un "minore straniero non accompagnato". Concretamente? Un'ipocrisia avallata legalmente che sostituisce il termine corretto "abbandonato" con uno di facciata come "non accompagnato". In tal modo ogni misura di urgenza, protezione e tutela verso queste persone è di fatto allentata.
Per l'odissea vissuta, questo ragazzino merita la speranza di un futuro migliore. Perché ha lottato per conquistarla.
E' un figlio protetto da Allah perché "vivo". Ha più volte rischiato che la sua vita dipendesse da una manciata di dollari in più nelle tasche di uomini avidi e senza scrupoli. Per alcune persone, poi, Ibrahim ha rappresentato un numero, un essere umano invisibile, "uno dei tanti disperati", un clandestino, un terrorista mascherato da profugo, uno stupratore, una scimmia, una "risorsa boldriniana"...ecc. ecc. ecc.
Perdonate la filastrocca sui luoghi comuni e sugli insulti razziali.
Ad ogni modo, non riesco a considerarlo se non come un bambino a cui è stato chiesto di crescere troppo in fretta. Un sognatore con l'animo da guerriero. Un adolescente con molte cicatrici riconoscibili, sia sul corpo che sull'anima.
Ibrahim è in carne ed ossa tutto ciò che molti commentano sui social senza cognizione di causa. Lui non è una storia lontana. Non è un post letto su Facebook o una foto commovente su Instagram.
Lui lo ritrovi negli occhi del ragazzo che chiede qualche spicciolo al semaforo. Lo vedi in mezzo ad altri emarginati, a bivaccare all'interno di edifici fatiscenti nelle periferie delle grandi città o nelle baraccopoli improvvisate in vecchi casolari rurali.
Lo incontri nei braccianti sfruttati per pochi euro nelle campagne del Sud Italia. Ed infine lo incroci nei ragazzini senza nazionalità che si prostituiscono o spacciano, nascosti negli anfratti delle stazioni metropolitane.
Ibrahim viene dalla Sierra Leone, più esattamente dalla Repubblica della Sierra Leone, un fazzoletto di terra dell'Africa occidentale affacciato sull'Oceano Atlantico.
La sanguinosa guerra civile che, per undici lunghi anni ha notevolmente decimato la popolazione locale, rappresenta una delle pagine più cruenti nella storia dell'umanità. Impossibile fornire una stima precisa circa le migliaia di vittime che furono coinvolte nel conflitto; i profughi invece superarono spaventosamente i due milioni. Numeri che fecero inorridire l'intera comunità internazionale al punto che in ogni parte del globo si invocava un intervento immediato che ponesse fine al genocidio.
La lista degli orrori emersi una volta scoperchiato il pentolone fu l'ennesima vergogna che l'uomo potesse perpetrare ad altri suoi simili.
Allo sgomento dell'epoca si aggiunse una maggiore attenzione ed interessamento verso i territori in mano alle fazioni ribelli. Il motivo? Semplice: i vasti giacimenti auriferi e diamantiferi, attraverso cui gli stessi guerriglieri conclusero numerosi affari illegali allo scopo di rafforzare il proprio armamentario bellico.
Ibrahim non ha vissuto quel periodo raccapricciante. Ma ha conosciuto l'isolamento, il rifiuto, la paura ed il senso di inadeguatezza. Troppo per uno scricciolo così indifeso.
Correva l'anno 2013 quando in Sierra Leone comparve per la prima volta il virus dell'ebola. Da quel preciso istante, il destino di Ibrahim fu segnato: essere immune alla malattia non lo ha protetto però dal trauma di assistere impotente alla morte inesorabile dei propri genitori e delle due sorelline di cinque e tre anni.
L'emergenza dovuta all'epidemia evidenziò infatti altre criticità di tipo sanitario e sociale: ossia, le migliaia di orfani abbandonati a se stessi, perché sopravvissuti e nello stesso tempo rifiutati dai parenti rimasti per timore del contagio.
Come possa un bambino pressoché adolescente, solo, e con pochi oggetti con sé, uscire dal Paese, oltrepassare i confini di più Stati, cavarsela per oltre due anni in condizioni veramente al limite della condizione umana, resta tuttora un mistero.
Gli operatori socio-pedagogici che, sin da subito lo hanno "adottato" occupandosi della sua integrazione presso la casa-famiglia cui è affidato, hanno svolto un lavoro eccezionale, intraprendendo con il ragazzo un lungo percorso di accettazione, pazienza, inclusione e supporto psicologico mai sospeso.
Passo dopo passo, hanno ricostruito il suo estenuante viaggio nel deserto sulle tratte del traffico di esseri umani; la sofferenza, la fame, la sete e la paura di morire in ogni istante per il puro divertimento dei suoi carcerieri, nonché le violenze fisiche e psicologiche commesse e subite al solo scopo di sopravvivere a quella vita di stenti.
E poi ci sono i soprusi, le mille volte in cui ha pregato Dio affinché lo ricongiungesse ai suoi cari. Le infinite lacrime silenziose versate durante la traversata sul Mediterraneo, o anche soprannominato il "Grande Fiume" dagli stessi migranti. Notti fredde ed interminabili, nelle quali il senso di solitudine aumenta sino a divenire una prigione dalle pareti spesse; una cella ancora più cupa di quella di Tripoli in cui ha transitato prima di imbarcarsi.
Incrociare gli occhi di Ibou, come lo chiamano nella casa-famiglia, non è semplice. Ha continuamente lo sguardo basso e se decide di guardarti lo fa per una frazione di secondi. E non comprendi bene se è timidezza o se è un'abitudine difensiva dopo l'inferno che ha attraversato.
Però in quella frazione che ti dedica, scorgi una dolcezza infantile che ti scalda il cuore.
"Qual è la prima cosa che ricordi appena sbarcato?", provo a chiedergli curiosa.
Lo vedo sorridere e trattengo la voglia di abbracciarlo che mi assale: "La doccia. E' stata la più bella della mia vita. L'acqua scendeva e a me sembrava di rinascere".
Che strano...resto un po' delusa. Mi sarei aspettata un elogio al wi-fi ed all'albergo 5 stelle.
Sarcasmo a parte, una riflessione è necessaria.
Le tre storie infatti mi hanno guidata nel focalizzare l'attenzione su un aspetto che tutti noi tendiamo a sottovalutare: la quotidianità, il nostro vivere tranquillo, le nostre piccole lamentele giornaliere.
Commettiamo sovente l'errore di considerare che quello che ci circonda, persone e diritti, sia qualcosa di "eterno", di cui potremo goderne i benefici per un tempo indefinito, mentre la realtà, o più precisamente le testimonianze di Anna, Samir ed Ibou ci scuotono dal nostro torpore, mostrandoci rudemente come un "per sempre" acquisti la stessa fragilità di una bolla di cristallo durante l'uragano Katrina.
Non fingiamo che le loro esperienze non abbiano nulla in comune con le nostre: peccheremo così di una superiorità che nessuno ci ha mai attribuito, se non noi stessi.
Sfoderiamo piuttosto la nostra empatia, caliamoci nello stato d'animo di chi incrocia la nostra vita, sia esso una gioia o un dolore. Cerchiamo un contatto visivo con l'altro, impariamo a guardare in fondo ad uno sguardo senza paura, pregiudizi o apatia.
Restiamo umani, perché conoscere storie diverse può esser la soluzione per affrontare al meglio un mondo difficile e complicato.
"Io che non credo alla guerra, non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera.
Semmai vorrei esser ricordato per i miei sogni".
Vittorio Arrigoni
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