Un appello lanciato via web a
giugno ed in meno di quindici giorni più di settecento adesioni. Una sola data:
25 Novembre 2013, per indire il primo
e rivoluzionario (così pare) sciopero delle donne. “Un’iniziativa
promossa per manifestare pubblicamente contro l’imperante e dilagante fenomeno
del femminicidio e per porre in
evidenza una politica delle donne e per le donne, rilanciando i principi
femministi e contribuire così alla costruzione di un mondo più giusto ed
eguale”.
Wow! Progetto
ambizioso e di certo lodevole, soprattutto per l’enorme tam tam diffuso in rete
e che in poco tempo ha raccolto numerose testimonianze.
Mi spiace per coloro che traviseranno le mie parole e di
certo mi trascineranno alla pubblica gogna, ma ho smesso circa un secolo fa
di credere alle favole tipiche di un paese per balocchi o allocchi, fate voi.
Sono cosciente del fatto che non risulterò molto politically correct, ma ciò non dev’essere un limite per impedirmi
di esprimere la mia opinione, giusta o sbagliata che sia, è del tutto relativo.
Affermo pertanto di nutrire poca fiducia in manifestazioni del genere, non
dissimili dai raduni organizzati qualche anno fa con motivazioni altrettanto
nobili. Differenze rispetto al passato pressoché nulle, tranne l’introduzione
di neologismi tristemente in voga (si veda femminicidio)
e che inevitabilmente mi portano a pensare che tutto questo protestare non ha sortito negli anni nessuno
degli effetti auspicati, visto che ancora oggi si riproducono fotocopie verbali
di una demagogia dalla valenza simile ad un flash mob, ossia coreografico, ad alto impatto ma ... ahimè a
tempo!
Onestamente, scendere in piazza, opporsi con veemenza e
bruciare il proprio reggiseno, erano tutti gesti dimostrativi che andavano di
moda negli anni ’70, quando il ruolo della donna si limitava a tre elementari
etichette: madre, moglie, cameriera. Per carità, non demonizzo le lotte sostenute
in quell’epoca, anzi ogni mattina sento il dovere di ringraziare le femministe dai
pantaloni a zampa di elefante per la conquista di quei diritti fondamentali
sino ad allora negati a qualunque donna. Ma cerchiamo di essere un po’ più
realiste e spogliarci di quest’aura da Don Chisciotte in gonnella, pronte a
combattere contro i mulini al vento. Ci siamo forse dimenticate che viviamo in
un Paese che è quotidianamente invaso da scioperi, manifestazioni, proteste e
raduni in piazza di ogni tipo ed in ogni salsa?
D’accordo, la pianto di esser cinica e promuovo
l’iniziativa. Quindi, scioperiamo.
Per quanto tempo? Un giorno. Un solo giorno.
Per di più, capita di lunedì, che per molte professioni costituisce giorno libero (si
veda parrucchiere, estetiste, ristoratrici, commercianti, ecc. ecc.). Se
dev’essere veramente rivoluzionario,
allora che si protragga per più tempo. Deve creare uno stato di disagio
generalizzato, che sia riscontrabile in ogni campo, da quello istituzionale, a
quello sociale e persino personale. Incrociando le braccia, ogni donna smetterà
di essere madre, moglie, amante, lavoratrice. Tutto sarà affidato agli uomini:
dalla gestione della vita privata (faccende domestiche e figli) a quella
professionale. Dagli ospedali, agli asili, ai ministeri, agli aeroporti, alle
scuole, ai negozi: una paralisi da far tremare l’intero Paese. Abolita ogni
sorta di populismo ideologico, al bando i discorsi costruiti per raccogliere
applausi e colmi di parole inascoltate, si passa così ad azioni concrete e
condivise da ciascuna donna, senza distinzione di razza o di religione, di
classe sociale o politica.
A tal proposito, la domanda sorge spontanea: è stata
forse spiegata la rilevanza di uno sciopero di così grande portata alle donne
africane, musulmane, cinesi, residenti in Italia? Perché una significativa
adesione da parte loro confermerebbe non solo la volontà di un’integrazione
necessaria, ma rappresenterebbe anche un segnale forte di come ogni donna
voglia sentirsi libera da regole ed imposizioni, tipiche di una cultura
patriarcale e maschilista.
Dopo aver definito dettagli non da poco, quali la durata
dello sciopero e le motivazioni alla base della manifestazione, passiamo ad
analizzare le eventuali conseguenze. Prima di farlo, esaminiamo lo strumento sciopero. Un’astensione collettiva dal
lavoro è storicamente una forma di tutela a disposizione del lavoratore subordinato,
il quale, attraverso essa, attua una serie di pressioni sul proprio datore di
lavoro allo scopo di rivendicare un miglioramento delle condizioni lavorative,
tali poi da essere annoverate e disciplinate dal ben noto contratto collettivo
nazionale di lavoro. L’obiettivo è diretto: ridurre la produzione industriale
ed obbligare il “padrone” ad un mancato guadagno, qualora le richieste vengano
ignorate.
Ora, eroine dello sciopero,
vi pongo una semplice questione: con la crisi che si sta attraversando, con l’economia
in ginocchio, con le difficoltà che ogni donna incontra nell’ottenere un
dignitoso posto di lavoro e per quelle “poche” fortunate che allo stato attuale
riescono ancora a mantenerlo, ma quali
donne riusciranno a scioperare? O meglio ancora, quante donne saranno messe in condizione di poter aderire alla
causa seppur nobile? Perché a dirla tutta, se avessi un lavoro e mi presentassi
dal mio capo, invocando il mio diritto di sciopero, allo scopo di protestare,
non per una più favorevole condizione di lavoro, ma contro la violenza sulle donne,
beh, di certo ciò che otterrei, così di primo acchito, sarebbe un’espressione
contrariata, seguita da uno sguardo di disapprovazione.
Quale disagio
“produttivo” avrei guadagnato? Okay, sul lavoro, non è andata come speravo.
Attuiamo lo sciopero nella vita privata: niente incombenze domestiche, niente
prelibatezze culinarie, niente sesso. Ora, viste le premesse, non so se
ritenermi sfigata o fortunata, dato che il mio compagno è
perfettamente in grado di pulire, cucinare, rassettare e scovare mascoline alternative al sesso, come dilettarsi
in una concitata partitella di calcetto oppure attuare una sana e consapevole simbiosi
col sofà del soggiorno davanti alla tv. A questo punto, torno a chiedermi: per cosa diavolo sto scioperando?
“Si protesta contro
una cultura della violenza”: questa potrebbe suonare come risposta alla mia
domanda; o, più palesemente, si tratta solo di una delle tante frasi, di cui il
web o i social trasbordano, laddove si cerchino informazioni sull’evento. Per
me, un’affermazione del genere possiede tutti i connotati di una demagogia da talk show, finalizzata a
strappare elogi e cenni di approvazione, ma che conserva in sé ben poca
sostanza. Cultura della violenza...quale
tipo di violenza si combatte? Verbale, psicologica, domestica, sessuale,
istituzionale, minorile? Tali generalizzazioni non sono certo d’aiuto alla causa;
al contrario, ravvedo in esse, solo un ulteriore strumento di confusione. Lo
stesso caos che si crea quando ci illudiamo di essere uguali agli uomini.
La realtà è ben diversa. Noi siamo diverse. Esistono casistiche alquanto seriose che
dimostrano come siamo abili e quanto siamo competenti e preparate, ma
proprio a causa di queste eccellenze, non riconosciute ufficialmente, veniamo
bistrattate. Quindi, finiamola con l’assistenzialismo concessoci dalle
istituzioni, governate dagli uomini, o con i piagnistei travestiti da
manifestazioni da piazza. Puntiamo piuttosto a proporre qualcosa di più
concreto; progetti, idee, programmi che siano davvero in grado di costruire ciò che non può essere oggettivamente
ignorato ed inascoltato.
E’ questo il tipo
di donna in cui credo e per cui voglio combattere.
Voi, se
volete, sostenete lo sciopero del 25 novembre. Anzi, annotatelo sul calendario,
ma fatemi il favore almeno di documentarvi e non agite per "sentito dire". E poi, nulla esclude il fatto che potrei essere
smentita, anzi spero proprio di incorrere in un madornale errore di valutazione
e che la cassa di risonanza per quel giorno sia esageratamente elevata, a
testimonianza che ancora oggi qualcuno, a differenza di me, crede in eventi dal
sapore così nostalgicamente vintage.
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