29 dic 2014

Come fregar la morte....


Ogni settimana mi ritrovo davanti al mio computer, risalente ad un periodo non meglio precisato dell’era mesozoica, a scandagliare il web alla ricerca di un argomento che susciti attenzione ed interesse in chi settimanalmente si dedica alla lettura dei miei articoli.
            Ma stavolta le cose cambiano. Esiste un ma, ingombrante  e limitativo. Quindi, confesso di non avere l’umore giusto per uno dei miei soliti pezzi. Perciò, parafrasando un vecchio proverbio: lettore avvisato, mezzo salvato.


Ho bisogno infatti di accantonare la pungente ironia per dare spazio ad un momento di riflessione profonda. Proverò a scrivere sottovoce, come quando, quasi senza che uno se ne possa accorgere, i concetti che si porta dentro prendono forma e si è portati a svelarli con tono lievemente sommesso.
            Non nascondo di avvertire una certa difficoltà e non poche incertezze nello scrivere queste righe. Sono giorni pesanti ed è complicato, se non addirittura insensato, restare indifferenti dinnanzi all’ennesima vittoria della morte sulla vita, dell’impotenza sulla forza, dello stato di bisogno sull’aver di diritto, della negazione assoluta sulla realizzazione personale.
Un secolo fa bastava una valigia di cartone ed un treno o una nave a cui affidare  sogni e speranze per una vita migliore. Oggi i sogni, pur essendoci, rimangono soffocati dalla paura e la speranza a volte è l’unica sensazione positiva che sopravvive fra perfetti sconosciuti, accomunati da un destino tremendo. E’ quella stessa speranza che offre conforto e compagnia durante le lunghe traversate a bordo di una delle tante “carrette del mare”.  Il viaggio è la vera sfida a cui non bisogna soccombere: questa diventa una delle poche consapevolezze dalla quale è pressoché impossibile fuggire. Sfortunatamente non sempre si vince e la resa diventa quasi inevitabile, una paradossale salvezza da un passato che si tenta di lasciare alle spalle contro un presente che mostra per ora solo orrore e sofferenza.

            Sono giorni grevi  per chiunque si ritrovi a fissare quelle immagini che la tv rimanda più volte: mani tremanti che afferrano una coperta, occhi impauriti in cui è facile scorgere anche un’ombra di vergogna, corpi allineati e racchiusi in sacche funebri, così tanti che è impossibile tentar una conta. Tante file, troppe. Uomini, donne e bambini che non ce l’hanno fatta ad imporsi sulla natura di quel mare oscuro e placido, predatore e depositario di sogni e desideri destinati un tempo alla terraferma.

E’ quel genere di giorni in cui, osservando ancora quelle sagome umane galleggiare inermi in mezzo all’acqua, sento la necessità impellente di stringere più forte gli affetti a me più cari e di ringraziare il mio Dio per esser nata da quella parte del mondo giusta.

Lampedusa negli anni è stata etichettata in diversi modi: “Porta dell’Europa”, “Paradiso del Mediterraneo”, “Isola da Nobel”. Nomignoli suggestivi e dall’allure romantico. In realtà, l’isola siciliana rappresenta, per quelle molteplici vite strappate ai propri paesi d’origine, l’ultimo baluardo da oltrepassare per la realizzazione di una promessa, fatta a sé stessi ed alle rispettive famiglie, una promessa che racchiude il bisogno di una nuova vita, di un nuovo mondo, dove sentirsi finalmente donne e uomini liberi.
Purtroppo, per tanti altri, l’isola è divenuta anche un luogo maledetto, un cimitero di anime innocenti, identificabili solo tramite una sequenza numerica su una bara, in quanto sprovviste dei regolari titoli di riconoscimento. E così un hangar diventa un’improvvisata camera mortuaria, dove regna un silenzio strano, irreale, interrotto a malapena dal leggero ronzio dei climatizzatori con il compito di ventilare l’ambiente al meglio e mantenere la temperatura più bassa possibile.
Un luogo di commemorazione in cui sfila il dolore composto di quei pochi sopravvissuti che sono riusciti a dare un nome ed un cognome a quelle uniche bare senza numero. Eh sì, perché questa è l’ultima beffa che la morte ti regala: ovvero, concederti la fortuna di varcare le soglie dell’altro mondo con un nome e cognome, il tuo. Persino quelle lacrime e quello strazio ti appartengono, a differenza delle altre numerose bare di legno, su cui si alternano una rosa rossa ed un peluche, a cui è stato negato l’ultimo abbraccio di un padre o di una madre, così come l’ultimo bacio di un figlio, di una moglie, di un marito.

            Non è l’unica tragedia a cui assistiamo in Italia ed il timore è che non sarà l’ultima, se ai tanti interrogativi sollevati a seguito di un simile evento non seguiranno risposte pronte. E mentre tra i costanti aggiornamenti, si prende coscienza sempre più della gravità della situazione, non mancano le polemiche e le righe intrise di razzismo ed intolleranza di un’esigua parte della stampa nazionalpopolare alla ricerca del loro pseudo e squallido momento di gloria.

            Siam bravi noi italiani a dimenticare. Rinneghiamo senza pudore il nostro passato di emigranti, quando la fame e la povertà obbligavano intere famiglie a partire, senza né arte e né parte, riempiendo le famose valigie di cartone, dove ogni nodo di spago rappresentava un sogno o un desiderio da portare nel Nuovo Mondo.
Ci avvolgono ancora abissali vuoti di memoria circa il nostro presente, caratterizzato da molti giovani cervelli che fuggono dall’Italia, cercando fortuna all’estero, e sostituiscono la valigia di cartone del bisnonno con i trolley di ultima generazione. Continuiamo ancora a non vedere come il fenomeno migratorio faccia parte della nostra storia umana e ci rifiutiamo di abbracciare gli insegnamenti del passato, gli unici in grado di farci riscoprire l’importanza di valori ormai archiviati come integrazione ed accoglienza.
        Inviterei tutti a riscoprire attentamente il significato della parola accogliere: “ricevere qualcuno o qualcosa. Accettare”. Attenzione, non si tratta di puro buonismo, ma di un’apertura dapprima mentale e poi fisica. E’ una sfumatura delicata, ma che conserva il senso profondo dell’ospitare, del rispetto verso il prossimo, del mettersi in gioco per integrarsi all’altro. Col tempo questo semplice concetto mi ha aiutata a comprendere meglio i racconti di mia nonna, quando mi narrava delle mille tavole preparate ed imbandite come nei migliori giorni di festa, al solo scopo di accogliere persone più sfortunate di noi.
            Questo stesso concetto però lo ritrovo ogniqualvolta che un passante rifiuta di essere indifferente, soffermandosi un po’ di più nei confronti del mendicante sotto casa; ogniqualvolta che una casalinga modesta esce dal supermercato e cede parte della sua spesa alla zingara che chiede l’elemosina per sé e per il neonato che stringe al seno.

Il senso dell’accogliere l’ho poi scorto in quelle braccia tese tra soccorritore e vittima, in quelle lacrime di rabbia e frustrazione per aver assistito impotenti al sacrificio di vite umane, in quell’abbraccio caldo e rassicurante che trasforma il clandestino in persona.
            Osservando quegli occhi, quelle mani, quei sorrisi tornati a vita, all’improvviso, nella mia testa, hanno iniziato a danzare i versi di una famosa ballata di Ligabue.  “L’amore conta, l’amore conta... Conosci un altro modo per fregar la morte?”.

E’ semplicemente disarmante. L’amore per l’essere umano conta. E’ quello stesso amore che spinge degli ignari turisti a trarre in salvo, durante una lunga notte di autunno, il maggior numero di naufraghi ed a fregar la morte, prendendosi cura di loro, privandosi di abiti e viveri.
L’amore conta molto di più di quelle insulse parole senza senso, lette un po’ ovunque, che spesso serbano il potere di cancellare l’essenza della più elementare forma di rispetto. E’ questa la vera vergogna di qualunque Paese che si ritenga civile. Occorrerebbe maggiore empatia e fermarsi un attimo a riflettere sull’eventualità di nascere, crescere e vivere in zone devastate dalla guerra e dalla miseria, dove una banale influenza si tramuta in una malattia mortale. Ora, al termine della suddetta riflessione, quanti di voi si dichiarano pronti a ringraziare il cielo in ginocchio per esser cresciuti da QUESTA parte del mondo? 

Tenetelo a mente il più a lungo possibile e non ricordatevi di ciò solo a Natale, quando ci si sente tutti più buoni e ci si comporta da perfetti samaritani con il lavavetri al semaforo o con il venditore di rose all’angolo, tornando poi ad avere le coscienze anestetizzate prima della fine dell’anno.
            Nel frattempo, mettiamo da parte le diatribe e concediamoci qualcosa in più rispetto al classico minuto di silenzio, qualcosa che non sia a tempo, che non abbia un limite, qualcosa che non abbia né scuse e né alibi.

            Semplicemente, non dimentichiamoci di come fregar la morte.

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