Ogni
settimana mi ritrovo davanti al mio computer, risalente ad un periodo non
meglio precisato dell’era mesozoica, a scandagliare il web alla ricerca di un
argomento che susciti attenzione ed interesse in chi settimanalmente si dedica
alla lettura dei miei articoli.
Ma stavolta le cose cambiano. Esiste un ma, ingombrante e limitativo. Quindi, confesso di non avere
l’umore giusto per uno dei miei soliti pezzi. Perciò, parafrasando un vecchio
proverbio: lettore avvisato, mezzo salvato.
Ho
bisogno infatti di accantonare la pungente ironia per dare spazio ad un momento
di riflessione profonda. Proverò a scrivere sottovoce,
come quando, quasi senza che uno se ne possa accorgere, i concetti che si porta
dentro prendono forma e si è portati a svelarli con tono lievemente sommesso.
Non nascondo di avvertire una certa difficoltà e non
poche incertezze nello scrivere queste righe. Sono giorni pesanti ed è
complicato, se non addirittura insensato, restare indifferenti dinnanzi
all’ennesima vittoria della morte sulla vita, dell’impotenza sulla forza, dello
stato di bisogno sull’aver di diritto, della negazione
assoluta sulla realizzazione personale.
Un secolo fa bastava una valigia di
cartone ed un treno o una nave a cui affidare
sogni e speranze per una vita migliore. Oggi i sogni, pur essendoci,
rimangono soffocati dalla paura e la speranza a volte è l’unica sensazione
positiva che sopravvive fra perfetti sconosciuti, accomunati da un destino
tremendo. E’ quella stessa speranza che offre conforto e compagnia durante le
lunghe traversate a bordo di una delle tante “carrette del mare”. Il viaggio è la vera sfida a cui non bisogna
soccombere: questa diventa una delle poche consapevolezze dalla quale è pressoché
impossibile fuggire. Sfortunatamente non sempre si vince e la resa diventa
quasi inevitabile, una paradossale salvezza da un passato che si tenta di
lasciare alle spalle contro un presente che mostra per ora solo orrore e
sofferenza.
Sono giorni grevi per
chiunque si ritrovi a fissare quelle immagini che la tv rimanda più volte: mani
tremanti che afferrano una coperta, occhi impauriti in cui è facile scorgere
anche un’ombra di vergogna, corpi allineati e racchiusi in sacche funebri, così
tanti che è impossibile tentar una conta. Tante
file, troppe. Uomini, donne e bambini che non ce l’hanno fatta ad imporsi
sulla natura di quel mare oscuro e placido, predatore e depositario di sogni e
desideri destinati un tempo alla terraferma.
E’ quel genere di giorni in cui,
osservando ancora quelle sagome umane galleggiare inermi in mezzo all’acqua, sento
la necessità impellente di stringere più forte gli affetti a me più cari e di ringraziare
il mio Dio per esser nata da quella parte del mondo giusta.
Lampedusa negli anni è stata etichettata in diversi modi:
“Porta dell’Europa”, “Paradiso del
Mediterraneo”, “Isola da Nobel”. Nomignoli suggestivi e dall’allure
romantico. In realtà, l’isola siciliana rappresenta, per quelle molteplici vite
strappate ai propri paesi d’origine, l’ultimo baluardo da oltrepassare per la
realizzazione di una promessa, fatta a sé stessi ed alle rispettive famiglie,
una promessa che racchiude il bisogno di una nuova vita, di un nuovo mondo, dove
sentirsi finalmente donne e uomini liberi.
Purtroppo, per tanti altri, l’isola è
divenuta anche un luogo maledetto, un cimitero di anime innocenti,
identificabili solo tramite una sequenza numerica su una bara, in quanto
sprovviste dei regolari titoli di riconoscimento. E così un hangar diventa
un’improvvisata camera mortuaria, dove regna un silenzio strano, irreale,
interrotto a malapena dal leggero ronzio dei climatizzatori con il compito di
ventilare l’ambiente al meglio e mantenere la temperatura più bassa possibile.
Un luogo di commemorazione in cui sfila il dolore composto di quei pochi
sopravvissuti che sono riusciti a dare un nome ed un cognome a quelle uniche
bare senza numero. Eh sì, perché questa è l’ultima beffa che la morte ti
regala: ovvero, concederti la fortuna
di varcare le soglie dell’altro mondo con un nome e cognome, il tuo. Persino quelle lacrime e quello
strazio ti appartengono, a differenza delle altre numerose bare di legno, su
cui si alternano una rosa rossa ed un peluche, a cui è stato negato l’ultimo abbraccio
di un padre o di una madre, così come l’ultimo bacio di un figlio, di una
moglie, di un marito.
Non è l’unica tragedia a cui assistiamo in Italia ed il
timore è che non sarà l’ultima, se ai tanti interrogativi sollevati a seguito
di un simile evento non seguiranno risposte pronte. E mentre tra i costanti
aggiornamenti, si prende coscienza sempre più della gravità della situazione,
non mancano le polemiche e le righe intrise di razzismo ed intolleranza di
un’esigua parte della stampa nazionalpopolare alla ricerca del loro pseudo e squallido
momento di gloria.
Siam bravi noi
italiani a dimenticare. Rinneghiamo senza pudore il nostro passato di
emigranti, quando la fame e la povertà obbligavano intere famiglie a partire,
senza né arte e né parte, riempiendo le famose valigie di cartone, dove ogni nodo di spago rappresentava un sogno
o un desiderio da portare nel Nuovo Mondo.
Ci avvolgono ancora abissali vuoti
di memoria circa il nostro presente, caratterizzato da molti giovani cervelli
che fuggono dall’Italia, cercando fortuna all’estero, e sostituiscono la
valigia di cartone del bisnonno con i trolley di ultima generazione. Continuiamo
ancora a non vedere come il fenomeno migratorio faccia parte della nostra
storia umana e ci rifiutiamo di abbracciare gli insegnamenti del passato, gli
unici in grado di farci riscoprire l’importanza di valori ormai archiviati come
integrazione ed accoglienza.
Questo stesso concetto però lo ritrovo ogniqualvolta che
un passante rifiuta di essere indifferente, soffermandosi un po’ di più nei
confronti del mendicante sotto casa; ogniqualvolta che una casalinga modesta
esce dal supermercato e cede parte della sua spesa alla zingara che chiede
l’elemosina per sé e per il neonato che stringe al seno.
Il senso dell’accogliere l’ho poi scorto in quelle braccia tese tra soccorritore e vittima, in quelle lacrime di rabbia e frustrazione per aver assistito impotenti al sacrificio di vite umane, in quell’abbraccio caldo e rassicurante che trasforma il clandestino in persona.
Il senso dell’accogliere l’ho poi scorto in quelle braccia tese tra soccorritore e vittima, in quelle lacrime di rabbia e frustrazione per aver assistito impotenti al sacrificio di vite umane, in quell’abbraccio caldo e rassicurante che trasforma il clandestino in persona.
Osservando quegli occhi, quelle mani, quei sorrisi
tornati a vita, all’improvviso, nella mia testa, hanno iniziato a danzare i
versi di una famosa ballata di Ligabue.
“L’amore conta, l’amore conta...
Conosci un altro modo per fregar la morte?”.
E’ semplicemente disarmante. L’amore per l’essere umano conta. E’ quello stesso amore che spinge
degli ignari turisti a trarre in salvo, durante una lunga notte di autunno, il
maggior numero di naufraghi ed a fregar
la morte, prendendosi cura di loro, privandosi di abiti e viveri.
L’amore conta molto
di più di quelle insulse parole senza senso, lette un po’ ovunque, che spesso
serbano il potere di cancellare l’essenza della più elementare forma di
rispetto. E’ questa la vera vergogna di qualunque Paese che si ritenga civile. Occorrerebbe maggiore empatia e fermarsi un attimo a
riflettere sull’eventualità di nascere, crescere e vivere in zone devastate
dalla guerra e dalla miseria, dove una banale influenza si tramuta in una
malattia mortale. Ora, al termine della suddetta riflessione, quanti di voi si
dichiarano pronti a ringraziare il cielo in ginocchio per esser cresciuti da QUESTA parte del mondo?
Tenetelo a mente il più a lungo possibile e non ricordatevi di ciò solo a Natale, quando ci si sente tutti più buoni e ci si comporta da perfetti samaritani con il lavavetri al semaforo o con il venditore di rose all’angolo, tornando poi ad avere le coscienze anestetizzate prima della fine dell’anno.
Nel frattempo, mettiamo da parte le diatribe e
concediamoci qualcosa in più rispetto al classico minuto di silenzio, qualcosa che non sia a tempo, che non abbia un
limite, qualcosa che non abbia né scuse e né alibi.
Semplicemente, non
dimentichiamoci di come fregar la morte.
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