16 dic 2014

Un anno senza te....




 E’ semplice, basta una leggera pressione del tasto invio e subito dopo comparirà l’ennesimo messaggio: grazie, la tua candidatura è stata appena inoltrata! Ed è sufficiente questo per riaccendere speranze che da un po’ di tempo, pure troppo, alternano una strana danza nel mio cervello.
Onestamente, credo di aver perso il conto di quanti curriculum abbia spedito, consegnato ed implorato di ricevere.
Per non parlare poi delle rassicurazioni benevoli dell’amico, del fratello, del cognato di un cugino di quinto grado che puntualmente mi garantisce un impegno ed un’attenzione esclusiva. Giorni, settimane e mesi di queste situazioni da mal comune e poco gaudio ed ecco che con solerzia sono in grado di recitare alla perfezione il copione delle frasi da propinare in tali circostanze, sfoderando anche la collezione dei miei migliori sorrisi plastici.

            Uh! Siete disorientati, eh? Vi siete lasciati ingannare dal titolo allusivo. Pensavate che la strega si cimentasse in nuovo tema romanticamente nostalgico e come sempre (e spero che continui ancora per molto) vi spiazzo trattando una questione attuale e da codice rosso.
            Non potevo ignorare così a lungo la cosa. In realtà, mi vien la nausea tutte le volte che sento pronunciare la profetica frase "passerà, vedrai...è solo un periodo". Già, periodo, fase transitoria, ciclo temporaneo. Ed ecco l’inganno: nulla di tutto ciò sembra aver una durata passeggera e le ventate di ottimismo hanno lo stessa efficacia di un tiepido e fragile soffio.
       
A volte maledico di essermi laureata in economia per non comprendere quell’ammasso di notizie, dati, ed informazioni riguardanti la reale situazione finanziaria, e restare all’oscuro di tutto, vivendo nella più completa e beata ignoranza. Tuttavia, lo sconforto cresce e non solo per ciò che filtra attraverso i media nazionali, ma anche e soprattutto per il panorama desertico che ho scoperto camminando lungo le vie della mia città.
        I cartelli con su scritto "chiusura attività", "cedesi attività", "fittasi", "in fallimento", mostrano che la crisi non è per nulla una leggenda ma una realtà che ha già allungato le sue ombre sul quotidiano a noi vicino. Quest’anno forzatamente sabbatico ha saputo darmi molto, ma ha saputo togliermi anche tanto: sul dare, posso enumerare le numerose testimonianze di giovani e meno giovani(?),  ossia i 40enni/50enni, demoralizzati perché esclusi dai giochi di mercato, privi di un mantenimento dignitoso e commisurato alla propria specializzazione e/o alla propria esperienza professionale. E’ attraverso questo punto di confronto che ho scoperto che la disoccupazione moderna è senz’età e spesso senza regole, ovvero può investire chiunque, dal semplice operaio sino al blasonato quadro dirigente. Sul togliere, invece, è talmente intuitivo che eviterò di scriverlo per non dover deprimere anche voi.

    Troppo qualificata, poco qualificata, troppo giovane, troppo vecchia, troppo alta, troppo bionda, troppo terrona.  In un anno ne ho sentito di tutti i colori. E se all’inizio puntavo a selezionare settori vicini al mio background professionale, col passar del tempo ho dovuto abbassare decisamente le mie aspettative ed i miei standard, includendo nella lista anche ambiti e funzioni al di sotto delle mie competenze. E tutto questo perché noi italiani non dobbiamo esser bamboccioni e choosy, ma adeguarci alla flessibilità che al di là dei nostri confini sembra la panacea di tutti i mali. Sembra, ma non è.

Basta affacciarsi oltre e dare uno sguardo al resto dell’Europa: purtroppo, la situazione non mostra trend di crescita positiva ed il tasso di disoccupazione è balzato a livelli esponenziali. E mentre i diversi capi di governo, le associazioni sindacali, i numerosi membri del gota economico, il Papa e tutti i Santi del Paradiso, analizzano, (pregano), implementano politiche di risanamento, sbloccano fondi economici per risollevare le sorti della popolazione “attiva”, ovvero dei senza lavoro di età compresa tra i 18-29 anni, IO, nel frattempo, m’interrogo, non senza far comparire sulla mia fronte una nuova ruga: ma di quale morte dovremo morire noi disoccupati che rientriamo invece nelle fasce di età tra i 30-50 anni?
            Come si fa a non valutare attentamente le implicazioni psicologiche che si celano dietro ad un inoccupato maturo? Da tale individuo ci si attende, vista l’età, la produzione di un certo reddito e che pertanto possa mantenere e garantire un futuro alla propria famiglia. Ma cosa succede quando gli viene negata la possibilità di far fronte alle sue responsabilità di cittadino, di padre, di marito, di uomo? La migrazione all’estero come avveniva agli inizi del secolo scorso è ahimè un’eventualità che oggi non può ritenersi una valida soluzione. Le prospettive di un avvenire più roseo in terra straniera non paiono così allettanti. Le ragioni, gli impedimenti, potrebbero essere tanti e tutti personali, ma probabilmente il freno maggiore è costituito da una mancanza di coraggio, seguito da una certa dose di avvilimento, nell’affrontare un futuro ancor più incerto ed instabile.
       Un disoccupato 40enne non è meno importante di un disoccupato 26enne, ma mentre a quest’ultimo si può rifilare la locuzione da oracolo “pazienta, sei giovane ancora, le cose miglioreranno...”, al maturo invece è sconsigliato ripeterla, a meno che non si voglia ricevere come risposta una sputacchiata in un occhio!
          E poi, vogliamo parlare della tanto famigerata esperienza richiesta un po’ dovunque, senz’alcuna distinzione se dietro un’infernale fotocopiatrice o un caotico bancone da bar? Spiegatemi, allora perché passa in secondo piano quando si tratta dei disoccupati maturi? Scommetto che a qualcuno di voi sarà capitato di avere a che fare con un 25enne pieno di arroganza, laureato in SoTuttoIo, che davanti ad una situazione di problem solving annaspa, il suo viso assume un colorito giallo-terrore, e farfuglia in pieno stato confusionale. Strano... non vi sembra il ritratto di alcuni soggetti, visti di recente in Parlamento, arrivati alla gloria come i paladini del malcostume politico italiano?

        Comunque, ad una conclusione sono giunta: essere terrona è stata la mia benedizione! Ma sì! Dopotutto, noi al sud siamo geneticamente abituati alla disoccupazione: è da secoli abbinata alle altre tre allegorie meridionali pizza, mafia e mandolino! E la nostra capacità di affrontare le difficoltà quotidiane è ben nota, tanto da essere i pionieri della cosiddetta “arte dell’arrangiarsi”. Chissà, magari, un giorno qualcuno ne analizzerà a fondo le caratteristiche, i modi di fare, le filosofie che sottostanno a determinati atteggiamenti, evidenziando così una delle nostre migliori abilità: ridere delle proprie disgrazie, anche se lo stomaco è vuoto!

            E’ questo, signori miei, si chiama eroismo in Terronia.

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