Il mio attuale status da desperate housewife (per la cronaca,
molto desperate e poco housewife) mi ha da poco riconciliata
con quell’aggeggio fornito di tubo catodico che la gente comunemente definisce
“televisione”. Confesso di averlo abbandonato per circa tre anni al suo inesorabile
destino: ovvero, quello di fungere da ingombrante soprammobile nella mia
libreria, a cui di tanto in tanto mi assicuravo di evitare il proliferare di
antiestetiche ragnatele.
In verità, non parlerei di un’effettiva riconciliazione, sarebbe più opportuno
limitare il tutto ad una momentanea pausa
di riflessione, viste le accese dispute tra me e quel coso lì. In fondo,
non è l’oggetto in sé che crea problemi, quanto il contenuto che negli ultimi
anni ha proposto (e continua a proporre), per il quale, un non meglio precisato
giorno di qualche anno fa, ho volontariamente preso le distanze, trovando conforto nel morbido fruscio che solo le pagine di un libro sono in grado di donare.
Com’era prevedibile, il televisore non l’ha presa molto bene...
Tuttavia,
ritornando alla tregua in corso, ammetto di aver pigiato con cautela e quasi
con un pizzico di ansia i tasti del telecomando, attuando uno zapping moderato e consapevole. E fra i
tanti show da baraccone, sono stata letteralmente catturata da una sorta di
reality molto politically correct proveniente
dagli Stati Uniti. Probabilmente, ne avrete già sentito parlare, perché voi la
seguite la tv, sono io che presento una certa dose di arretrati. Il programma
in questione è Undercover Boss, che
in Italia è stato tradotto in "Un capo in
incognito", e mostra come alcuni importanti manager o capitani di grosse
multinazionali si prestino per una settimana a lavorare in incognito
all’interno della medesima azienda, partendo proprio da quei ruoli posizionati
ai “piani bassi” della piramide gerarchica. Credetemi, di spettacolo ce n’è in
abbondanza! Anche questa volta i “cugini americani” hanno decisamente sbancato
in tema di audience, sia in casa propria che all’estero. Infatti, visto il
successo registrato, si sta pensando in Italia ad un suo adattamento alla
nostra realtà imprenditoriale.
Son
sincera: mi è sfuggito un sorriso pregno di sarcasmo alla lettura della
suddetta notizia. Riuscite per un minuto, un solo minuto, ad immaginare il
passaggio della realtà americana a quella nostrana? Io ho tentato anche per tre
minuti, ma ammetto i miei limiti e le mie difficoltà. Innanzitutto,
bisognerebbe scoprire se esiste ancora una nostra
realtà imprenditoriale. Senza poi dimenticare che da noi il termine boss assume una valenza completamente
differente rispetto all’accezione adottata oltreoceano. Inoltre, gli italici
capitani d’industria non sono poi così anonimi, piuttosto fanno a gara per
accaparrarsi copertine e primi piani sui gossip
media. E l’impegno con cui si spintonano pur di esserci è visibile a chiunque, persino al più distratto uomo della
strada.
Presumibilmente,
per riuscire nell’ardua impresa, toccherebbe immergersi nel sottobosco della
provincia italiana, perlustrare a tappeto ogni area industriale, alla ricerca
di un commendatore, un cavaliere del lavoro, un dottor-ing. Tal de’ Tali che possa corrispondere in
larga misura al suo doppio a stelle e strisce.
Una gran bella rogna visto che
il comparto delle piccole e medie imprese, su cui buona parte della nostra
economia (se non tutta) si basava fino ad una decina di anni addietro, si sta
progressivamente riducendo, intrappolata in una forbice sempre più
sconfortante, dove da un lato la produttività si abbassa vorticosamente e
dall’altro i costi contribuiscono ad innalzare un muro difficile da abbattere. A
questo punto, capite anche voi che il vero miracolo diventa quello di trovare
una figura imprenditoriale operativa nonostante tutte le moderne problematicità
e lontano anni luce dal fallimento.
D’accordo,
ipotizzando che esista una residua possibilità che ciò si verifichi, quanti
sarebbero disponibili ad abbandonare le scrivanie, spogliarsi dei loro colletti bianchi per indossare una tuta
da inserviente o una divisa da fattorino e “sporcarsi” per davvero le mani?
Beh, a
quanto pare una lancia a favore del nostro gotha imprenditoriale merita di
esser spezzata, in quanto esiste un
precedente! Ebbene sì, l’esperienza “sotto copertura” (per di più senza
telecamere) di Lapo Elkann, presso la catena di montaggio della Piaggio,
suscitò a suo tempo un certo scalpore tanto da innalzare non solo le quotazioni
in borsa dell’azienda ma anche quelle della famiglia italiana reale per eccellenza. Come se ce ne
fosse ulteriore bisogno!
Il
ritorno di immagine che si ricava da una trovata simile non si può naturalmente
sottovalutare: è la più sottile forma di marketing!
Anche il più sprovveduto tra gli ingenui ne è a conoscenza. Il sospetto poi
che sia tutto orchestrato da dietro le quinte diventa più che mai legittimo.
Dopotutto, siamo stati ampiamente vaccinati contro la distorsione di realtà che
si crea quando, all’interno di un frammento di vita quotidiana, vengono
introdotti una telecamera o un microfono. Signori miei, Grande Fratello docet.
Archiviando
la storiella di Lapo come operaio, da propinare in futuro ai nipoti come racconto
di Natale, sono assolutamente certa che lui non sia stato l’unico ad
infiltrarsi nell’azienda di famiglia e testare in prima persona le conseguenze
decisionali provenienti dai piani alti. Di sicuro, rispetto ai figli di
“Beppe-il macellaio” o di “Tonino-il re del panino” che non godono dello stesso
livello di mondanità tale da balzare agli onori della cronaca, al nostro caro
Lapo sarà stato almeno concesso il privilegio di poter scegliere in quale impresa catapultarsi. Le aziende a
gestione familiare non sono certo una realtà sconosciuta, specie in Italia. In
fondo il concetto di famiglia lo
abbiamo modellato e plasmato, nel corso del tempo ed a seconda delle
circostanze, a nostra immagine e somiglianza. Il grosso guaio è che siamo
riusciti contemporaneamente a disperderlo così bene, al punto da essere in via
di estinzione al pari delle tigri bengalesi.
Conosciamo
a memoria il ritornello, secondo il quale l’economia mondiale attraversa un
momento estremamente difficile e che le possibilità di risalire la china si
contano perlopiù sulle dita di una mano. E siamo piuttosto stanchi di alcuni
slogan che, nati in strada come forma di protesta contro l’incapacità dello
Stato di assicurare diritti fondamentali ai propri cittadini, si son presto trasformati
in cantilene noiose, scevre da ogni legittimazione. Inoltre, siamo tristemente marchiati (oltre
che provati) dal fatto che in Italia il termine meritocrazia non avrà mai una sua piena ed indiscriminata applicazione.
Ma, se malgrado ciò, si
riesce ancora a trovare un equilibrio tra la propria indole idealista e
sognatrice e la ratio più pragmatica,
grazie anche a documentari come Undercover
Boss, che sanno offrirti su un piatto d’argento l’illusione che il
cosiddetto "sogno americano" sia al
giorno d’oggi più vivo e più presente che mai nelle nostre vite, allora mi
chiedo, e vi chiedo, perché
distruggere quella fievole speranza che alberga altresì nell’animo del più
pessimista tra noi?
E poi
ammettetelo: da uno a dieci, quanto vi intriga l’immagine del vostro capo alle
prese con guanti di gomma e spazzola per il water? Direi.... cento!!!
Liberiamoci
dell’astrusa concezione che i sogni siano il male del nostro tempo. “Essi
sono solo l’inizio del viaggio che occorre per realizzarli”. Non ricordo
chi lo sostenne ma....QUOTO!
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