6 gen 2015

Sognando.....in Incognito

Il mio attuale status da desperate housewife (per la cronaca, molto desperate e poco housewife) mi ha da poco riconciliata con quell’aggeggio fornito di tubo catodico che la gente comunemente definisce “televisione”. Confesso di averlo abbandonato per circa tre anni al suo inesorabile destino: ovvero, quello di fungere da ingombrante soprammobile nella mia libreria, a cui di tanto in tanto mi assicuravo di evitare il proliferare di antiestetiche ragnatele.

In verità, non parlerei di un’effettiva riconciliazione, sarebbe più opportuno limitare il tutto ad una momentanea pausa di riflessione, viste le accese dispute tra me e quel coso lì. In fondo, non è l’oggetto in sé che crea problemi, quanto il contenuto che negli ultimi anni ha proposto (e continua a proporre), per il quale, un non meglio precisato giorno di qualche anno fa, ho volontariamente preso le distanze, trovando conforto nel morbido fruscio che solo le pagine di un libro sono in grado di donare. Com’era prevedibile, il televisore non l’ha presa molto bene...


Tuttavia, ritornando alla tregua in corso, ammetto di aver pigiato con cautela e quasi con un pizzico di ansia i tasti del telecomando, attuando uno zapping moderato e consapevole. E fra i tanti show da baraccone, sono stata letteralmente catturata da una sorta di reality molto politically correct proveniente dagli Stati Uniti. Probabilmente, ne avrete già sentito parlare, perché voi la seguite la tv, sono io che presento una certa dose di arretrati. Il programma in questione è Undercover Boss, che in Italia è stato tradotto in "Un capo in incognito", e mostra come alcuni importanti manager o capitani di grosse multinazionali si prestino per una settimana a lavorare in incognito all’interno della medesima azienda, partendo proprio da quei ruoli posizionati ai “piani bassi” della piramide gerarchica. Credetemi, di spettacolo ce n’è in abbondanza! Anche questa volta i “cugini americani” hanno decisamente sbancato in tema di audience, sia in casa propria che all’estero. Infatti, visto il successo registrato, si sta pensando in Italia ad un suo adattamento alla nostra realtà imprenditoriale.

Son sincera: mi è sfuggito un sorriso pregno di sarcasmo alla lettura della suddetta notizia. Riuscite per un minuto, un solo minuto, ad immaginare il passaggio della realtà americana a quella nostrana? Io ho tentato anche per tre minuti, ma ammetto i miei limiti e le mie difficoltà. Innanzitutto, bisognerebbe scoprire se esiste ancora una nostra realtà imprenditoriale. Senza poi dimenticare che da noi il termine boss assume una valenza completamente differente rispetto all’accezione adottata oltreoceano. Inoltre, gli italici capitani d’industria non sono poi così anonimi, piuttosto fanno a gara per accaparrarsi copertine e primi piani sui gossip media. E l’impegno con cui si spintonano pur di esserci è visibile a chiunque, persino al più distratto uomo della strada.
Presumibilmente, per riuscire nell’ardua impresa, toccherebbe immergersi nel sottobosco della provincia italiana, perlustrare a tappeto ogni area industriale, alla ricerca di un commendatore, un cavaliere del lavoro, un dottor-ing. Tal de’ Tali che possa corrispondere in larga misura al suo doppio a stelle e strisce.
Una gran bella rogna visto che il comparto delle piccole e medie imprese, su cui buona parte della nostra economia (se non tutta) si basava fino ad una decina di anni addietro, si sta progressivamente riducendo, intrappolata in una forbice sempre più sconfortante, dove da un lato la produttività si abbassa vorticosamente e dall’altro i costi contribuiscono ad innalzare un muro difficile da abbattere. A questo punto, capite anche voi che il vero miracolo diventa quello di trovare una figura imprenditoriale operativa nonostante tutte le moderne problematicità e lontano anni luce dal fallimento.

D’accordo, ipotizzando che esista una residua possibilità che ciò si verifichi, quanti sarebbero disponibili ad abbandonare le scrivanie, spogliarsi dei loro colletti bianchi per indossare una tuta da inserviente o una divisa da fattorino e “sporcarsi” per davvero le mani?
Beh, a quanto pare una lancia a favore del nostro gotha imprenditoriale merita di esser spezzata, in quanto esiste un precedente! Ebbene sì, l’esperienza “sotto copertura” (per di più senza telecamere) di Lapo Elkann, presso la catena di montaggio della Piaggio, suscitò a suo tempo un certo scalpore tanto da innalzare non solo le quotazioni in borsa dell’azienda ma anche quelle della famiglia italiana reale per eccellenza. Come se ce ne fosse ulteriore bisogno!
Il ritorno di immagine che si ricava da una trovata simile non si può naturalmente sottovalutare: è la più sottile forma di marketing! Anche il più sprovveduto tra gli ingenui ne è a conoscenza. Il sospetto poi che sia tutto orchestrato da dietro le quinte diventa più che mai legittimo. Dopotutto, siamo stati ampiamente vaccinati contro la distorsione di realtà che si crea quando, all’interno di un frammento di vita quotidiana, vengono introdotti una telecamera o un microfono. Signori miei, Grande Fratello docet.

Archiviando la storiella di Lapo come operaio, da propinare in futuro ai nipoti come racconto di Natale, sono assolutamente certa che lui non sia stato l’unico ad infiltrarsi nell’azienda di famiglia e testare in prima persona le conseguenze decisionali provenienti dai piani alti. Di sicuro, rispetto ai figli di “Beppe-il macellaio” o di “Tonino-il re del panino” che non godono dello stesso livello di mondanità tale da balzare agli onori della cronaca, al nostro caro Lapo sarà stato almeno concesso il privilegio di poter scegliere in quale impresa catapultarsi. Le aziende a gestione familiare non sono certo una realtà sconosciuta, specie in Italia. In fondo il concetto di famiglia lo abbiamo modellato e plasmato, nel corso del tempo ed a seconda delle circostanze, a nostra immagine e somiglianza. Il grosso guaio è che siamo riusciti contemporaneamente a disperderlo così bene, al punto da essere in via di estinzione al pari delle tigri bengalesi.

Conosciamo a memoria il ritornello, secondo il quale l’economia mondiale attraversa un momento estremamente difficile e che le possibilità di risalire la china si contano perlopiù sulle dita di una mano. E siamo piuttosto stanchi di alcuni slogan che, nati in strada come forma di protesta contro l’incapacità dello Stato di assicurare diritti fondamentali ai propri cittadini, si son presto trasformati in cantilene noiose, scevre da ogni legittimazione.  Inoltre, siamo tristemente marchiati (oltre che provati) dal fatto che in Italia il termine meritocrazia non avrà mai una sua piena ed indiscriminata applicazione.
Ma, se malgrado ciò, si riesce ancora a trovare un equilibrio tra la propria indole idealista e sognatrice e la ratio più pragmatica, grazie anche a documentari come Undercover Boss, che sanno offrirti su un piatto d’argento l’illusione che il cosiddetto "sogno americano" sia al giorno d’oggi più vivo e più presente che mai nelle nostre vite, allora mi chiedo, e vi chiedo, perché distruggere quella fievole speranza che alberga altresì nell’animo del più pessimista tra noi?
E poi ammettetelo: da uno a dieci, quanto vi intriga l’immagine del vostro capo alle prese con guanti di gomma e spazzola per il water? Direi.... cento!!!

Liberiamoci dell’astrusa concezione che i sogni siano il male del nostro tempo. “Essi sono solo l’inizio del viaggio che occorre per realizzarli”. Non ricordo chi lo sostenne ma....QUOTO!

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