Da ex atleta, quando mi fu concessa la
possibilità di lavorare nel mondo dello sport, confesso che mi sentii divisa in
due. Una parte di me era entusiasta all’idea di sperimentare finalmente le
conoscenze di marketing acquisite negli anni e sino ad allora rimaste solo teoriche.
L’altra me stessa, invece, era terrorizzata dalla sfida che di lì a breve si
sarebbe prospettata, ovvero la possibilità di valorizzare ed innovare non un
prodotto tangibile e ben identificato, ma un servizio, carico di elementi immateriali e di difficile
comparazione. A tutto ciò si aggiunga pure che il servizio in questione
riguardava un’attività sportiva, la cui
conoscenza si basava né più e né meno su luoghi comuni e leggende
metropolitane.
Il
confronto con atleti locali e nazionali e la collaborazione con professionisti
del settore hanno contribuito a rinverdire principi e valori sportivi, gli
stessi che hanno guidato la mia infanzia, motivato le mie sconfitte ed esaltato
le mie vittorie. Si tratta di concetti che vengono assorbiti solo attraverso una
pratica sportiva equilibrata.
Col
tempo ho compreso che lo sport è cultura
ed una società che non crea opportunità e mezzi per una sua efficace promozione
è destinata presto a soccombere, ponendo un freno alla propria crescita evolutiva.
Lo sport è da ritenersi uno dei pochi strumenti ancora efficaci affinché sia
possibile costruire e formare una giovane personalità, in
quanto solo tramite il confronto leale con l’avversario ed il rispetto per le
regole del gioco, si arriva ad apprendere quali potenzialità e quali limiti concorrono
a modellare l’essere umano.
Tuttavia,
al di là di queste mere considerazioni concettuali, la mia esperienza
professionale ha messo in luce anche altre sfaccettature dell’universo
sportivo, che erroneamente davo per scontate ma che in realtà rappresentano dei
punti cardini, qualora si voglia dar continuità ad una qualsiasi attività
fisica. Mi riferisco alla circostanza di come una piscina, una palestra, un
campetto di calcio, o un tatami, diventino in un breve lasso di tempo dei
luoghi, degli spazi o delle facili occasioni d’incontro sociale, di evasione
mentale, ma anche di integrazione culturale. E ciò si verifica
indipendentemente dall’età anagrafica dell’utente sportivo. In otto anni di
full immersion, ammetto di averne viste molte di bizzarrie: su alcune non ho potuto
fare a meno di allenare la mia ironia, su altre ho nutrito una serie di
perplessità, a cui ancora oggi non ho trovato una logica ben precisa.
Sono
stata testimone in vari momenti di grandi atti di amore, di amicizia e
solidarietà: sentimenti troppo spesso bistrattati, o peggio repressi, da una
realtà esclusivamente interessata a salvaguardare l’apparenza, fregandosene di
una “sostanza”, lasciata in fase embrionale e con poche chance di crescita. Mi
son resa conto, inoltre, quanto sia facile per alcuni/e ingannare, raggirare, fuorviare, un genitore,
un marito, una moglie o un fidanzato, perché il passaggio da acrobati della frittata ad astuti strateghi
è veramente breve. La scaltrezza di tali individui si concentra tutta nel saper
trasformare uno spogliatoio, un parcheggio, un’uscita in gruppo in vere e
proprie opportunità a cui abbandonarsi, cadendo (consapevolmente) vittima di
tentazioni pericolosamente peccaminose.
Rilegando tali episodi a camei della più provinciale commedia all’italiana piuttosti che a fatti di vita reale, ciò che
mi ha sempre contrariata, ed in alcuni casi non nego di aver provato una sincera
pena, è stato veder dei bambini o ragazzini scorrazzati avanti ed indietro;
sballottati come palle da bowling tra una disciplina sportiva e l’altra, tra un
allenamento sfiancante ed un’ipnotica playstation, tra uno stato di ansia ed
una crisi di panico in corso. E che dire poi di quelle scene, ripetutesi
all’infinito, così avvilenti da far crepare d’un colpo Tata Lucia?! Genitori
che, incapaci di mantenere un contegno personale, imponevano ai propri pargoli l’esercizio di un’attività sportiva. A
volte bastava loro ricorrere ad equi compromessi, quali l’eventualità di
frequentare assieme; altre volte invece scendevano a biechi ricatti psicologici
(niente paghetta, proibite le uscite con gli amichetti, oscuramento della tv,
computer knock out, ecc. ecc.). Inutile affermare che l’agire secondo questi
schemi comportamentali, trincerandosi dietro alla banalità “è solo per il tuo bene”, produce un
inconveniente non da poco, ovvero quello di non riuscire a trasmettere, e di
conseguenza di far apprezzare, lo sport come passatempo benefico ed educativo
per ciascun bambino in fase evolutiva.
Seppur
riconoscendo l’enorme buona fede che un genitore riversa nel “proporre” al
figlio un’opportunità che non tutti a questo mondo possono permettersi, è
necessario aprire gli occhi su un errore spesso comune: ossia, non tener conto
della delicata età dello sviluppo, ancora non equamente distribuita tra corpo e
mente, tra psicologia e fisicità. Un tale atteggiamento non può che indurre il
bambino o l’adolescente a disaffezionarsi allo sport praticato sino a
rifiutarlo in maniera definitiva.
In Italia il 10% degli adulti svolge in maniera regolare attività fisica, mentre il restante 90% si dedica ad incrementare le nevrosi e lo stress della prole, annullando spesso quegli step intermedi, necessari a poter vivere in maniera tranquilla qualunque tipo di sport. Step necessari, quali l’apprendimento progressivo, in cui l’elemento ludico è sempre protagonista, e l’avvicinamento alla pratica agonistica, dove l’impegno, il sacrificio, la competizione ed il desiderio di vincere rappresentano peculiarità proprie dell’animo umano.
In Italia il 10% degli adulti svolge in maniera regolare attività fisica, mentre il restante 90% si dedica ad incrementare le nevrosi e lo stress della prole, annullando spesso quegli step intermedi, necessari a poter vivere in maniera tranquilla qualunque tipo di sport. Step necessari, quali l’apprendimento progressivo, in cui l’elemento ludico è sempre protagonista, e l’avvicinamento alla pratica agonistica, dove l’impegno, il sacrificio, la competizione ed il desiderio di vincere rappresentano peculiarità proprie dell’animo umano.
Al riguardo,
bisogna ammettere che oggi, nella maggior parte delle discipline sportive,
l’aspetto agonistico è talmente diffuso da esser precocemente consigliato sino
a divenir quasi obbligatorio. Come a dire, se
non sei un campione, non sei nessuno! Gli effetti che si propagano da tale
affermazione sono devastanti: si passa da programmi di allenamento spesso non
confacenti all’età dei ragazzi e di per sé pregni di obiettivi quasi sempre
irraggiungibili a momenti di delusione, umiliazione, insicurezza, ansia e stati
depressivi. Non è così insolito assistere in questi casi ad abbandoni anche in periodi di grandi successi sportivi. Le cause vanno principalmente ricercate
in una graduale perdita di interesse e divertimento per ciò che si fa e si è
fatto in passato; poi, se a tutto questo si aggiunge il carico di stress e la
presenza ingombrante di genitori esagitati, che non riescono a vivere lo sport
senza esasperazioni ed eccessi psicologici, beh, come si può biasimare un
ragazzino che molla?
Accettare
una sconfitta indica la consapevolezza di non poter primeggiare in tutto ciò
che si fa; significa entrare in contatto con i propri limiti attraverso umiltà
e spirito di sacrificio; vuol dire infine crescere e maturare, evitando di
ripetere lo stesso errore.
Concetti da non circoscrivere esclusivamente all’ambito sportivo, ma che andrebbero impartiti anche in un contesto più ampio, quale la vita vera. Da profana, in quanto sprovvista di bambini al seguito, riconosco che questi possano apparire come gli insegnamenti più difficili che un genitore possa affidare al proprio figlio. Difficili ma non impossibili. Istintivamente si tende a proteggerli, a preservarli, da tutto quello che possa recar loro dolore o dispiacere. Ecco, questo è impossibile!
Concetti da non circoscrivere esclusivamente all’ambito sportivo, ma che andrebbero impartiti anche in un contesto più ampio, quale la vita vera. Da profana, in quanto sprovvista di bambini al seguito, riconosco che questi possano apparire come gli insegnamenti più difficili che un genitore possa affidare al proprio figlio. Difficili ma non impossibili. Istintivamente si tende a proteggerli, a preservarli, da tutto quello che possa recar loro dolore o dispiacere. Ecco, questo è impossibile!
Occorrerebbe
star loro accanto, senza invadere i loro spazi; incitarli e sostenerli nelle varie
problematiche, sia che esse riguardino una gara sportiva che un brutto voto a
scuola; gioire delle loro piccole vittorie senza esaltarli troppo, evitando di
caricarli eccessivamente. Ma ancora più arduo diventa seguirli nelle loro
scelte, rinunciando ad una naturale propensione ad intromettersi.
Sono un paio di anni che sono ormai fuori dai giochi, ma continuo tuttora a notare genitori che smaniano di vivere una vita che non appartiene loro e che vergognosamente si
sostituiscono ai figli nel porre riparo agli errori commessi da questi ultimi .
Così facendo
si diventa dei pericolosi deterrenti psicologici. Un
esempio al riguardo sono le recenti dichiarazioni espresse da uno dei più
grandi campioni di tennis di fama mondiale come Andre Agassi: “Non volevo scrivere un libro per celebrare
una carriera, volevo capire chi ero e com’ero diventato. E, quando ho
cominciato a capire, mi sono reso conto di quanto detestassi il tennis da
giovane. Non volevo più giocare per mio padre, per il denaro, per gli
allenatori. Ci dev’essere una
ragione per fare quello che fai, una motivazione.".
E’ questo il
maggior rischio che aleggia nello sport moderno: l’assenza di motivazioni. Oggi
come oggi, l’idea che lo sport rappresenti una palestra di vita risulta un po’
sbiadita. Abbiamo tutti perso di vista quale sia la differenza che intercorre
tra situazioni in cui prevale l’impegno da quelle guidate solo dalla fortuna; i
nostri ragazzi non conoscono affatto cosa significa sacrificarsi per
raggiungere un risultato; così come non accettano di esser messi sempre alla
prova allo scopo di migliorarsi; ma soprattutto ignorano il peso delle
responsabilità con il conseguente carico di diritti e doveri.
Sono il
risultato finale, ahimè, di una società che premia in modo sbagliato l’apparire senza sacrificio, facendosi
beffa di chi avanza a fatica, portando con sé dei contenuti.
In occasione di un importante evento sportivo, feci stampare su delle t-shirt uno degli aforismi
a cui sono più legata: "I campioni non si fanno nelle palestre.
I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un
sogno, una visione”. ( Muhammad Ali)
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