8 gen 2015

WEB ADDICTION: dal punto G al 3G


Una settimana fa postai su Twitter e Facebook il seguente messaggio: “Stasera faccio qualcosa di veramente TRASGRESSIVO....Spengo l’I-Phone!”.
         Non badai molto all’appeal che il post/tweet potesse suscitare presso i miei contatti o follower. Seppur scritto con evidente ironia, rimasi tuttavia di stucco nel constatare che per molti doveva sembrare davvero una forma di trasgressione nell’era 2.0. Sorrisi persino al “pazza”, attribuitomi da un’amica, che arricchì il commento con emoticon impaurite.

         Tutto ciò ha inevitabilmente smosso le mie sinapsi sino a produrre delle necessarie riflessioni.
Senza creare facili allarmismi, evitando inoltre di gridare Al lupo - Al lupo, ho lanciato uno sguardo agli oggetti posti nelle mie immediate vicinanze. Due notebook, un i-phone, una fotocamera digitale, ed un altro smartphone: niente di eccezionale, se non per quello spazio vuoto tra il portatile e l’i-phone, in cui vedrei proprio bene un tablet di ultima generazione. Non finisco neanche di emettere un sospiro triste che subito vengo colta da un dubbio atroce: e se mi stessi avvicinando al tunnel che conduce alla tecno-overdose?!

         C’è poco da sorridere, amici miei! Qua si vive un pericolo costante: ovvero di essere affetti da demenza digitale. Oddio, volendo toccar l’argomento demenza, potrei indicare, con margine di errore pari a zero, chi ne soffre indipendentemente dall’uso di tecnologia. Ma quella è un’altra storia!

         Secondo lo studioso tedesco Spitzer, i media digitali, tra cui i computer, gli smartphone, gli i-pad, le consolle per videogames, le televisioni di new generation, ostacolerebbero lo sviluppo di importanti capacità, quali la memoria, la concentrazione, l’autocontrollo, la socialità; elementi acquisibili solo attraverso un’interazione costante con il mondo reale. Inoltre, supportato da numerosi studi sull’argomento, egli sostiene che l’apprendimento in età prescolare, svolto attraverso strumenti digitali (vedi i tablet), non migliorerebbe le performance cognitive dei ragazzi, anzi creerebbe un rallentamento delle loro funzioni cerebrali, normalmente stimolate tramite attività manuali e fisiche, giochi di gruppo, disegno, ecc.
Con tutto il rispetto per lo psichiatra, ma non sta mica affermando nulla che non sia già stato ampiamente riportato, googlato, evidenziato. Esempi di individui digitalmente dementi, direi che, ne esistono a iosa e il rischio, ormai divenuto abitudine, è di incrociarli ovunque. Quindi, non stupisce più beccare la tizia, acchitata come uno dei tanti cloni che la tv e le riviste di moda propinano, entrare in un locale pubblico con bauletto fermo sul polso e smartphone in mano, sedersi al tavolo dove l’attendono altri sei cloni come lei, e dopo aver svolto le dovute moine di routine, annullarsi completamente dal gruppo ed iniziare a scorrere, digitare, taggare, chattare con il proprio cellulare. Ed i cloni non sono da meno: all’improvviso attorno a loro cala un silenzio quasi innaturale, interrotto qua e là solo dal trillo di una o più notifiche.
Non sorprende neanche più assistere a delle elaborate sedute di make-up, tali da far sembrare Diego Della Palma un dilettante, il cui unico obiettivo è quello di realizzare un selfie di smorfie variegate, tali da far invidia alla D’Urso.
Ormai, si osserva quasi con pena l’individuo che apre e chiude Whatsapp a qualunque ora del giorno e della notte, al solo scopo di cambiare l’orario di accesso e mostrare a tutti i contatti che è acca-24-reperibile.

La misericordia è da me invocata ogniqualvolta, durante una cena, scruto il disagio sul viso dei miei commensali, i loro sudori freddi, soprattutto le difficoltà nel seguire uno straccio di conversazione, perché impossibilitati a mantenere la concentrazione. Stati d’animo o, meglio, conseguenze dirette del non poter sbirciare l’email, la pagina Facebook, la timeline di Twitter, i like su Instagram.
E così d’un tratto scorgi tracce di sofferenza, di astinenza non desiderata, di completa assuefazione a tutto ciò che Sarah Connor, indimenticabile protagonista di Terminator, definiva “Le macchine”.

Personalmente, non amo demonizzare la tecnologia ed il progresso che con essa avanza. Sono una di quelle poche donne che ama tutti quegli aggeggi high-tech e che inevitabilmente ne resta affascinata; tanto per intenderci, m’ingrippo parecchio nel comprendere le funzionalità, le modalità di esecuzione e le abilità nascoste.
L’evoluzione tecnologica è un percorso naturale nella vita umana, perché grazie ad essa tutto è diventato più veloce, più intuitivo, più facile, quindi perché etichettarla come il Male?!
Ad ogni modo, leggendo l’undicesimo rapporto del Censis sulla Comunicazione, un po’ di preoccupazione sorge: secondo i dati rilevati, pare che il 12,5% dei giovani di età compresa tra 14-29 anni utilizzi il digitale per più di sei ore al giorno, al punto da lasciarsi ipnotizzare a livello cerebrale sino ad indurre uno stato di vera e propria dipendenza dalla rete.
Al di là di ogni statistica e dato scientifico, la logica suggerisce di usar la tecnologia con giudizio, senza diventarne succubi, evitando di fomentare sciocche crociate che innalzino barriere inutili contro un qualcosa che comunque proseguirà anche senza chi avrà scelto di restare dieci passi indietro. L’uso responsabile dei media digitali non è solo uno spot pubblicitario, ma un invito a saper gestire al meglio la quantità di informazioni immagazzinate, mantenendo vive le tradizionali capacità intellettive, evitando pertanto di delegarle alle macchine sino ad omologare ed appiattire ogni  sorta di emozione.
Ma se nonostante tutto, si cade inevitabilmente nella rete, organizzando quindi la propria vita in funzione di essa, posponendo famiglia, amici, lavoro sino a confondere la vita reale con quella virtuale, allora è il caso di ricorrere alla Digital Detox.
Secondo l’Oxford Dictionary Online (mica robetta da poco!), dicasi Digital Detox “quell’intervallo di tempo in cui una persona desiste dall’utilizzare smartphone, computer, tablet ed ogni altro marchingegno digitale, allo scopo di ridurre lo stress e favorire una maggiore interazione sociale nel mondo reale”. Tale definizione, in realtà, prende spunto dalla mission di un’azienda americana, nata per aiutare le persone a disintossicarsi dalla dipendenza digitale.

Come? L’idea è piuttosto semplice: vengono organizzate vacanze in luoghi dove la tecnologia è bandita, affinché sia possibile ristabilire un contatto con la natura e con ogni forma di socializzazione umana. La trovata da chapeau appartiene a Felix Levi, un ventiquattrenne statunitense con all’attivo circa 80 ore settimanali davanti ad un display.
Stanco di vedersi come uno zombie digitale, il giovanotto attuò una scelta quanto mai coraggiosa: ovvero, abbandonò il cosiddetto “posto fisso” ed impiegò i due anni successivi a gironzolare per il mondo, sperimentando uno stile di vita totalmente differente da quello sino ad allora condotto, fatto di yoga e meditazione.
L’esperienza e gli insegnamenti, tratti durante il suo peregrinare, lo hanno illuminato sulla via del ritorno tanto da inventarsi un business nella più classica ma mai demodé tradizione americana. Va precisato che la Digital Detox non punta a rimuovere dalle nostre vite le macchine, piuttosto educa ad un utilizzo coscienzioso lontano da moderne schiavitù.

Comunque, chiusa la parentesi “sogno americano go on”, ciò che lascia interdetti è la straordinaria varietà di termini coniati per poter meglio individuare o etichettare questa o quella “patologia”.
E così si legge di internet addiction disorder, checking habits (maniacale ossessione di controllare il telefono), smartphone addict, nomofobia (meglio nota come la paura di esser disconnessi dalla rete), ecc.
Alla costante evoluzione tecnologica che con maggior frequenza si appropria del nostro tempo e del nostro spazio, stabilendo la qualità da assegnare sia all’uno che all’altro, si contrappone il popolo senza web.
Sì, ma è pur sempre un “senza” a scadenza; giusto il tempo di una pausa lunga un weekend o una settimana, lontano da wi-fi, tablet, smartphone, playstation, navigatori satellitari, aria condizionata, e così via. Dove il tempo è scandito da passeggiate in mezzo alla natura, da trattamenti in spa, da corsi di meditazione.
Sarà... ma a me sembra tanto un ritorno all’hippie-style, nulla di così sbalorditivo se non per i prezzi non proprio modici!

Volendo però puntare ad una terapia faidate per combattere il tecnostress, si può ricorrere ad una serie di piccole accortezze.
Innanzitutto, un bel bagno caldo: pare infatti che sia un portento contro l’obesità informativa digitale a cui la mente umana è continuamente esposta.
In secondo luogo, la pratica di uno sport di gruppo, poiché aumenta la socializzazione. In alternativa, si può passare alla coltivazione di un proprio orticello (non sto scherzando!), molto utile a rigenerare corpo e mente. Si prosegue poi con l’arredare l’ufficio di piante detox (smettetela di ridere!), essenziali per un’ottima purificazione dell’aria dalle polveri sottili e pollini vari.
Inoltre, tra una pausa caffè ed una pausa sigaretta, si può srotolare il tappetino ed eseguire poi qualche movenza yoga, indispensabile per sedare l’ipertensione e tutti quei disturbi derivanti da un eccessivo rapporto con le macchine.
Ed infine, si passa ad una corretta educazione alimentare, selezionando cibi antistress scientificamente testati: un esempio fra tutti, il buon caro cioccolato, miracoloso nel ridurre la presenza di cortisolo (l’ormone dello stress) nel sangue; seguono poi i carboidrati (che il Signore li abbia in gloria!), il cui consumo aumenta la produzione di serotonina (l’ormone del buonumore) ed i cereali che prolungano questo stato di serenità.

E se dopo tutto ciò, non intravvedete neanche lontanamente uno spiraglio di luce nel tunnel della tecno-overdose, don’t worry! E’ sufficiente scaricare un’app (Digital Detox), la quale blocca lo smartphone per un periodo di tempo specificato dall’utente ed una volta digitato OK non si torna indietro...


Santa Tecnologia dei Miracoli, ora pro nobis!



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